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Africa

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INDICE

IntroduzioneCapitolo 1Capitolo 2Capitolo 3Capitolo 4Capitolo 5


1ntroduzione

Sono morto durante la Terza Guerra Africana quando il mio sangue per un attimo ha reso brune le acque del grande Congo.
A uccidermi fu uno dei miei fratelli, il più giovane. Tradendo la sua famiglia e il suo popolo, egli usò il mio sangue per nutrire la Bestia. Da allora vivo sospeso tra questi tre mondi: la Vita, la Morte e il Tempo che scorre tra esse, bagnando ed erodendo le rispettive sponde.

1

«Fratello! Aiutami, fratello!»
Il cielo nero buttava giù tanta acqua da fare invidia al mare. Forse proprio per questo le onde s’erano mutate in montagne di schiuma e rabbia, buie e pesanti come pietra.
La misera barca non aveva resistito e già al secondo colpo s’era rovesciata e subito spezzata. I corpi dei vivi e dei morti erano volati come granelli di sabbia dispersi da un folle soffio. Le fredde braccia del mare li avevano accolti ansiose e desiderose di non lasciarli più, mentre le urla degli uomini venivano cancellate dalla furiosa voce della tempesta.
Le sottili braccia di Sef apparivano e scomparivano tra le onde e inutilmente i suoi occhi scrutavano le acque in cerca dei suoi compagni. Ma non per questo avrebbe smesso di gridare e pregare.
Quando una mano lo afferrò per il polso destro, capì subito chi fosse il suo salvatore. Un attimo dopo Sef si ritrovò steso su quel che restava della barca, la metà rovesciata dello scafo. Cercò inutilmente di parlare, ma il tentar di rimanere a galla tra le onde lo aveva spossato, lasciandogli soltanto l’energia necessaria a far battere il cuore. Svenne e, senza mai mollare la chiglia, rimase privo di sensi quasi tutta la notte.

Riaprendo gli occhi vide un’alba bianca, priva di ogni sfumatura naturale, e vide un mare spento, piatto, morto, eppure scintillante come lucido metallo.
«Sono vivo?» – chiese a sé stesso. Ma un tuono profondo, difficile da interpretare, gli rispose: «Lo sei ancora.» Questa voce cavernosa lo scosse e lo spinse ad alzarsi di scatto – nonostante il dolore che ogni muscolo del suo corpo si sforzava di trasmettere al cervello.
Su quella che una volta era la prua dell’imbarcazione con la quale avevano lasciato le coste libiche, stava seduto un pezzo della notte nera appena trascorsa. Era il congolese. Ma questo, Sef l’aveva già capito: solo quella montagna nera poteva avere avuto la forza di sollevarlo, strappandolo dalle acque, per portarlo in salvo sul relitto… usando una mano soltanto.
«Sei stato tu a salvarmi, fratello? Ieri notte?» Ma l’uomo rispose con un semplice cenno del capo, indicandogli la donna che giaceva ancora priva di sensi insieme a loro sullo scafo. Guardandola, Sef bisbiglio verso il congolese: «Sembra più morta che viva.» E questi sottovoce rispose: «Fino a poco fa anche tu sembravi morto.»
«Come ti chiami, fratello? Il mio nome è Sef.»
«Il mio è André» – rispose e, sempre a bassa voce, aggiunse: «La costa non è lontana. Le correnti ci sono amiche oggi.» Qualcosa cambiò nella sua espressione, ma fu difficile per Sef interpretarla.
«Siamo stati gli unici a salvarsi? Pensi che gli altri siano sull’altro pezzo di barca?» Con un altro cenno del capo André guidò lo sguardo di Sef verso la poppa rovesciata della loro barca. Galleggiava a poche bracciate di distanza da loro e non c’era segno dei loro compagni di viaggio.

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2

«Hai visto dove ti hanno portato i tuoi passi?» – chiese il vecchio sacerdote, inclinando il capo come usano fare certi cani e sorridendo coi pochi denti che gli restavano. Pareva divertito. Ma non sembrava averne motivo: la sua tunica era sporca oltre che strana, diversa da quelle dei preti cattolici. Aveva i piedi avvolti in delle fasce fatte di abiti strappati, raccattati chissà dove. Aveva tutta l’aria di un uomo abituato a vivere per strada.
«Perché perdi tempo? Ti aspettano, stupido ragazzino, sbrigati!» – sbottò, indicando svogliatamente l’entrata di quello che poteva essere un piccolo magazzino o il retro di qualche bottega ormai chiusa, a quell’ora della notte.
Ma era davvero notte? Il ragazzo non avrebbe saputo dirlo con certezza. Era buio, questo sì, eppure riusciva a vedere chiaramente ogni cosa in quel lercio vicolo, compreso quel brutto vecchio.
Senza saperne il motivo prese a scendere per la scalinata, che i suoi piedi nudi gli dissero essere fatta di freddo metallo.

Giunto in fondo ai gradini si guardò intorno. Era davvero un magazzino, pieno di scaffali e grossi scatoloni. E in fondo allo stanzone una piccola lampadina elettrica ingialliva i volti tristi di alcune persone.
Appena si accorsero di lui, gli rivolsero tutti un sorriso e uno di loro – un uomo alto, calvo e con una giacca da lavoro sporca di grasso – gli fece cenno di avvicinarsi. «Vieni, vieni. Mi dispiace di non avere qualcosa di caldo da offrirti, ma siamo tutti venuti qui di fretta, sapendo quel che ti era successo.» Accennò persino un abbraccio e gli indicò una seggiola lì vicino. «Ti prego, riposati un secondo. Posso solo immaginare quanto tu sia stanco.»
Era vero. Tutto il suo corpo era in preda a una spossatezza che non aveva mai provato prima. Le sue gambe sfinite gli permisero a mala pena di raggiungere la sedia. Una ragazza dai capelli rossi lo aiutò a sedersi.
A quel punto, vedendosi circondato da quelle persone piene di compassione, finalmente riuscì a parlare: «Sono sicuro di quello che è successo, non ho dubbi. Non siamo più a Lisala, lo capisco. Non vi chiederò se sono morto per davvero, perché so di esserlo. Ho sentito ogni goccia del mio sangue uscire dalle mie ferite. Ma devo chiedervi, se potete rispondere: chi o cosa siete voi?» I suoi occhi erano pieni di rispetto.
Una donna con una divisa da paramedico annuì lievemente col capo e aggiunse: «No, questa non è la tua Lisala. E non siamo nemmeno in Congo. Hai capito anche questo, vero? In questo momento ti trovi in Serbia e quella là fuori è Belgrado. Ma questo deve importarti poco, visto che tra poco dovrai tornare a casa.»

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3

«C’è una puzza d’inferno qua dentro, fratello! A Batna nemmeno le fogne puzzavano così, qui anche l’aria fresca odora di petrolio! Dovevo dar retta a mio padre quando mi disse: “Sef, stupido ragazzo mio, fuori dall’Algeria non troverai altro che topi, non uomini, ma topi! E finirai a vivere come i topi, vedrai!” Questa baracca ci crollerà in testa mentre dormiamo, ne sono sicuro!»
Fuori da quel catasto di lamiere e cartoni che dava riparo a decine di anime senza patria, il traffico della città non s’arrestava nemmeno la notte. La periferia sbiancata dalla luce artificiale di pochi altissimi lampioni, ronzava unta come un grosso moscone nero. Il deserto era lontano, e più lontane ancora le foreste.
Immobile in un angolo della baracca André si limitava a guardare tristemente la Luna attraverso una delle crepe.

L’alba era ancora lontana quando arrivarono le ruspe.
«André, siamo fottuti! Fottuti! Stupido negro, perché ti ho seguito in questa topaia!» Così dicendo, Sef corse come un matto fuori dalla baracca. La sua paura era incontenibile. Sapeva cosa gli avrebbero fatto se lo avessero preso quei porci razzisti. Eppure fu tentato di ritornare sui suoi passi. Quello stupido congolese gli aveva salvato la vita, non poteva certo lasciarlo lì a crepare!
Per sua fortuna non fu necessario fare l’eroe. André corse fuori dalla baracca appena in tempo, subito prima che una delle ruspe la riducesse ad un foglio di fango e sporcizia. «Corri, Sef!» – tuonò.

I cingolati, le urla, i cani, le torce. I vicoli illuminati a giorno dalle auto della polizia. I cassonetti rovesciati, la paura, i cancelli chiusi a sbarrare la via, i piedi nudi affondati nei rigagnoli ai bordi della strada. Una notte e un incubo che non sembravano finire.

Neanche una parola, un insulto, un grugnito. Niente uscì dalle bocche dei loro inseguitori, quando li ebbero raggiunti. Le mazze suonarono sorde sulle ossa, cancellando ogni altro rumore. Erano in tanti, troppi ed erano armati di spranghe, coltelli e una furia insensata. Solo alla fine, uno di loro, prima di lasciarli a dissanguarsi sull’asfalto, disse ansimando: «Non è casa vostra questa.» Aveva la faccia di un ragazzino. Aveva le mani sporche di sangue.

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4

Era quasi giorno e una tenue luce azzurrina si sforzava di scacciare le ombre che ancora indugiavano tra le macerie. Una bianca e grande via di polvere – un tempo forse una delle strade principali della città – era invasa dai resti delle palazzine distrutte. Ogni costruzione pareva essersi accasciata sulle proprie ginocchia e i pochi muri ancora in piedi portavano i segni profondi dell’artiglieria, delle esplosioni. A pochi passi quel che restava di un’auto mostrava le sue lamiere, contorte e senza più vernice, che si aprivano come i petali di un fiore nero. Un’autobomba forse.
Camminare in mezzo a tanta desolazione appesantiva il cuore mentre il silenzio non la smetteva di urlare.
«Cos’è questo posto?» – domandò. E l’uomo con la giacca da lavoro, indicandogli un cumulo di calcinacci, disse con amarezza: «Non lo riconosci? Ci siamo incontrati qui la prima volta. Il magazzino. Questa è la stessa città di allora, anche se sono passati poco più di quindici anni da quando l’hai vista tu.»
Leggendo la confusione sul volto del giovane, aggiunse: «So che per te sono passati solo pochi mesi, ma non devi lasciarti spaventare da tutto ciò. E, André, devi credermi se ti dico che tutto quello che vedi attorno a te non si poteva evitare. Non avrei potuto io, non avresti potuto tu. Chi avrebbe dovuto impedirlo non ne ha avuto la forza. Come troppe volte accade, fratello uccide fratello. E tu lo sai bene.»
Il sorriso comprensivo dell’uomo non lo alleggeriva dalla sua angoscia.
«André, dimmi: cosa ti ha spinto ad andare a nord? L’Europa ti sembrava migliore della tua Africa?»
L’angoscia divenne rabbia. «Voi mi avete riportato alla vita dandomi il compito di morire di nuovo. In Congo. Nel mezzo di una guerra. La stessa guerra che aveva armato la mano di mio fratello! E io… ho tentato di trovare la forza… ma non ce l’ho fatta. Mi sono allontanato il più possibile dal destino che mi avevate preparato. Ma… avete vinto lo stesso.»

Quella strada polverosa pareva non finire mai, così come i palazzi crollati a destra e a sinistra.
«Vedi, André, non c’era cosa più lontana dai nostri desideri. Non abbiamo deciso noi della tua morte. Noi ci occupiamo da sempre di coltivare la vita su questo pianeta. Non è nostro interesse che questa venga distrutta. Eppure, di tanto in tanto, una specie spicca tra le altre. Gli uomini non sono la prima specie che abbia cercato di governare la Terra. E di certo non saranno l’ultima. Il nostro compito, quando una civiltà come quella umana raggiunge un picco – d’eccellenza nel bene o d’abominio nel male – è quello di testarla, metterla alla prova. Tu e molti altri come te avete un ruolo importante in tutto ciò: siete l’ago della bilancia.
Siete anime di rilievo, che in vita hanno dimostrato di avere il controllo delle proprie paure e debolezze. Il vostro ritorno tra i vivi ci permette di valutare una volta per tutte la qualità dei vostri simili. Capisci da solo il perché.»
«Sì. Ci giudicate e, se è il caso, ci condannate!»
«No, no! Noi non abbiamo questo potere. Né desideriamo averlo, devi credermi. Abbiamo pochissima influenza su di voi. L’unico strumento che ci è concesso è un dono. Il più grande, se lo si usa per il bene. Il più terribile, se usato altrimenti. La regola ci impone di attendere che si verifichino certe condizioni, prima di poter fare questo dono. Proprio per questo abbiamo chiesto il vostro aiuto. Per essere sicuri che gli uomini fossero pronti.»
«Pronti per cosa?»
«A ricevere il dono. E lo sono.» Queste parole suonarono come una condanna. «Che dono?»
«Il dono definitivo: il controllo.»
Dentro il cuore di André si addensava un dubbio atroce. «E cosa succederà adesso?»
L’uomo prese fiato e con pazienza disse: «È come se io ti facessi dono di un bastone di legno e ti dicessi che hai libertà di usarlo come più ti aggrada. Saresti tu a decidere se, ad esempio, farne dono, a tua volta, al vecchio zoppo come sostegno per camminare. Oppure potresti scegliere di usarlo come arma per colpire un tuo fratello. Lo stesso vale per questo dono. Potrebbe illuminare la storia della tua specie oppure… interromperla. Il nostro lavoro ricomincerebbe dall’inizio, come tante volte è accaduto. E la Terra troverebbe un nuovo padrone.»

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5

«Sono appena riuscito a farla addormentare. Se proprio devi dire altre sciocchezze, cerca almeno di non urlare. Se si sveglia giuro che ti uccido!»
Il sangue le salì alla testa. «Eccolo il padre perfetto! Viene fuori quando meno te lo aspetti e subito piazza lì la faccia seria e responsabile!» Ma il sarcasmo nelle sue parole non piacque al marito.
«Ah! Nessuno osi contraddire la donna in carriera, regina della casa!» Disse così, lasciandosi cadere sul divano con aria sfinita e borbottando. «Se solo lo avessi saputo prima…»
«Cosa vuoi dire? Se hai il coraggio, butta tutto fuori! Lo so che vuoi dirlo. E allora dillo: “Se solo avessi saputo prima che tua cugina era muta, non ti avrei mai sposata!” Dillo, Cristo Santo!» Nella voce di lei il tono canzonatorio lasciava sempre più spazio alle lacrime. «Volevi il pedigree di tutta la mia famiglia. Dovevo informarti anche che mio nonno è morto d’infarto e che mia zia Michela c’ha solo quattro dita in un piede. Hai ragione. Sono tutte cose importantissime, cose che influenzano un rapporto. Tu…» Ma le parole che dovevano seguire le si consumarono in gola.
«Io questo non l’ho mai detto e non lo penso! E tu lo sai. Io le voglio bene, la adoro… è mia figlia. Solo che a volte è… difficile.» Si accorse subito di aver usato la parola sbagliata, ma era tardi. Lei, nel suo silenzio, aveva già deciso per l’odio. Non gli avrebbe più rivolto la parola per il resto della giornata. E fu proprio quel minuto di silenzio che seguì alla lite a dare spazio all’inaspettato.

La bambina piangeva. La sua voce cristallina ruppe il silenzio e bloccò ogni pensiero nella mente dei genitori. Dalla cameretta giungeva chiara e decisa alle loro orecchie. Si guardarono l’un l’altra inebetiti. Solo dopo alcuni secondi riuscirono a scattare in piedi e correre verso quel richiamo.
La madre giunse per prima sulla culla e il suo sangue si gelò all’istante. Il suo viso si riempì d’angoscia, mentre la voce della piccola riempiva la stanza. Il padre, leggendo quell’angoscia, tentennò prima di chinarsi anche lui sulla figlia.
Il viso della bambina era rosso per lo sforzo. Le lacrime, piccole come grani di sale, brillavano ai lati degli occhi, senza riuscire ad allontanarsi. Eppure nessun suono proveniva dalla sua piccola bocca sconvolta.
Il lamento si era fatto man mano più forte, tanto forte da distorcersi e raschiare i timpani. Come un suono metallico, artificiale.
Entrambi rimasero immobili a fissare la TV. Era da lì che sgorgava il pianto: dalla piccola TV incastrata all’angolo della stanzetta, circondata da orsacchiotti e bambole. Ma quella TV era spenta. Ed era spenta per il semplice fatto che non aveva mai funzionato.

Vincendo lo stupore, la donna si ricordò improvvisamente della bambina. Sua figlia aveva bisogno di lei. La prese in braccio e, nella maniera più naturale possibile, cominciò a cullarla battendole lievemente sulla schiena col palmo di una mano. Il padre vide il viso dapprima impaurito della piccola rasserenarsi a poco a poco.
La televisione tornò al suo silenzio.

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