Seleziona una pagina

Gli scarafaggi di Santo Spirito

Tempo di lettura: 74 minuti.
INDICE

Cap. 1Cap. 2Cap. 3Cap. 4Cap. 5Cap. 6Cap. 7Cap. 8Cap. 9Cap. 10Cap. 11Cap. 12Cap. 13


1

Una panchina al sole

Aveva il sole negli occhi, cosa che solitamente apprezzava e anzi ricercava con avidità, come fosse una droga. Eppure quel giorno non riusciva a godere di quell’accecante e calda benedizione. L’unica cosa benedetta, nella quale ancora credeva e alla quale avrebbe affidato il resto dei suoi giorni, quella mattina non riusciva proprio a distoglierlo dai suoi nuvolosi pensieri.

A rincarare la dose di fastidio non tardò ad arrivare un gruppetto di ragazzini, appena usciti da scuola. Sapeva cosa stava per accadere già quando aveva sentito le loro risa echeggiare dalla stretta viuzza che risaliva alla sinistra della chiesa. Schiuse un poco gli occhi e, riparandosi dal sole con una mano, cercò di farsi trovare con una smorfia di fastidio e di rabbia tale da farli desistere. Ma a nulla valse lo sforzo. Infatti, non appena i ragazzini furono a pochi metri dalla sua panchina, diedero il via alla solita scenetta.
Con la lingua rigorosamente di fuori, come quella di un camaleonte, giù a fare boccacce e versi grotteschi nella sua direzione. Uno di loro, il più bassetto del trio, si esibì anche in una danza scimmiesca, ulteriore prova del fatto che di quei loro versi non conoscevano nemmeno il significato, la storia.

Infatti la scimmia non c’entrava un bel niente con lui. Avevano imparato quello sfottò dai propri genitori, senza mai premurarsi di capirne l’origine. E Paolo di certo non aveva voglia di spiegare loro che questa fastidiosa tradizione prendeva spunto dal soprannome della sua famiglia.
Poteva ormai ammettere senza vergogna che, da parte di padre, erano da sempre conosciuti come “li Tignusi”.
Il “tignusu” è il nome dialettale del geco. E, come per tutte le famiglie del suo paese, le ingiurie sono come titoli nobiliari che vengono tramandati di generazione in generazione e le cui origini si perdono nei secoli. Questo “nominaggio” molti l’avevano attribuito probabilmente ai lineamenti spinosi del viso e alla linea della bocca particolarmente sottile e lunga, segno di riconoscimento per tutti i maschi della sua famiglia. Ma non era del tutto corretto.

Tornando con l’attenzione ai ragazzini che lo molestavano quella mattina, Paolo sapeva che sarebbero rimasti lì a infastidirlo finché non avessero ottenuto una reazione qualunque da parte sua. Così li accontentò subito. Balzò in piedi in uno scatto, ma rimanendo curvo in avanti come un animale pronto a saltare sulla preda. Accompagnò il tutto con un versaccio gutturale, urlando di lasciarlo in pace. I grigi capelli, sempre troppo lunghi e unti, gli coprirono il volto, accrescendo il suo aspetto animalesco.
Inutile dire che i ragazzini erano a due traverse di distanza già al suo primo cenno di reazione.

Purtroppo non era sempre così facile sbarazzarsi di questi piccoli scocciatori. Alcune volte s’erano mostrati molto più insistenti e a tratti persino violenti. In più di un caso si era trovato costretto ad una fuga verso il portone della chiesa. Lì dentro non lo avrebbero mai seguito. Questo era forse uno dei pochi lati positivi di tutta quella bigotta religiosità che impregnava i suoi odiatissimi compaesani.
O forse si trattava solo della paura che lui non sapeva incutere loro, mentre don Baldassarre e la sua panza sapevano fare benissimo. Anche quei mostriciattoli sapevano che, se solo si fossero azzardati a mettere un piede in chiesa per fare casino, il vocione tonante del prete sarebbe piombato su di loro come la voce di Dio Onnipotente. Meglio, quindi, stare alla larga dalla chiesa.
Al contrario per Paolo era, o meglio era stata, una specie di tana negli ultimi anni, nonostante all’epoca tutta la sua spiritualità potesse abbondantemente essere contenuta dentro una scatola di fiammiferi.

Dico “era stata” perché, da quando il don se l’era data a gambe, la chiesa era rimasta chiusa. Per la cronaca bisogna aggiungere che, visto che Baldassarre era sparito dal giorno alla notte, molti avevano dato per scontato che le gambe qualcuno gliele avesse tagliate piuttosto e che l’avessero infilato in qualche pilone di cemento o sul fondo di un pozzo di acqua mintina.
Paolo era convinto invece che i tempi della “lupara bianca” fossero passati da un pezzo e che se il prete non era ai Caraibi, allora gli era successo qualcosa di brutto, sì, ma senza bisogno di scomodare la Mafia. Perché, nonostante la mezza santificazione che i suoi fedelissimi gli avevano già appioppato, Baldassarre non era mai stato uno di quei religiosi in prima linea contro il malaffare.
Ciò non ostante, non si poteva di certo dire che fosse un cattivo prete, anzi. S’era comportato da galantuomo sempre con tutti, per quel che ne sapeva Paolo. Anche con lui che di messe non ne aveva mai voluto sapere manco per i funerali di parenti e amici.
In un anno dalla scomparsa, la curia non aveva ancora rimpiazzato il vecchio sacerdote e la parrocchia di Santo Spirito era rimasta orfana. I fedeli del quartiere s’erano dovuti arrangiare con altri preti in altre chiese (in paese ce n’erano ben sette).

Fortunatamente per Paolo, la sua panchina davanti la chiesa non era sparita insieme a don Baldassarre ed egli poteva continuare i suoi personali “riti solari”. Eccetto quando veniva interrotto da quei ragazzini molesti o da qualche conoscente inopportuno.

Ma quel giorno Paolo non riusciva ancora a scaldarsi nonostante il Sole fosse alto e il cielo sgombro da nubi. Non soffiava nemmeno un alito di vento e, ad esclusione dei mocciosi di poco prima, nessuno era apparso a disturbarlo.
Cercò allora di focalizzare tutta la sua attenzione sul tepore che la luce cercava di imprimere sulle sue palpebre semichiuse, provando magari ad amplificarlo se possibile.
E fu allora che, come una doccia ghiacciata, venne investito da quella che gli parve un’esplosione, una bomba, chissà… l’ultimo suono che si sarebbe aspettato di sentire quella mattina, un suono che non udiva da più di un anno. Un tocco di campane, proprio dalla chiesa di Santo Spirito!

Torna all’indice di questo racconto

2

Si apre un portone

Erano passati diversi minuti da quel primo solitario rintocco. Minuti che Paolo aveva riempito di mille ipotesi, tra le quali non escludeva una sua allucinazione uditiva dovuta al troppo sole. Quando, all’improvviso, sentì schioccare a pochi passi da lui le serrature del grande portone di legno della sagrestia. Fece un salto giù dalla panchina e si girò di scatto in direzione della chiesa. Così vide il portone aprirsi e la testa della signora Luigina uscirne frettolosamente.
Senza perdere tempo, le corse incontro.
«Buongiorno! Ma le hai suonate tu le campane?» le disse forse con troppa irruenza. Infatti lei dapprima trasalì, perché probabilmente non lo aveva visto nè sentito arrivare e poi, compreso chi fosse, gli lanciò la solita occhiataccia di fastidio e rispose rabbiosa: «Ti pare che mi metto a suonare le campane a piacere mio?!»

Detto questo si tolse il velo dalla testa – era una di quelle irriducibili signore secondo le quali una donna in chiesa deve entrarci a capo coperto – lasciando fuoriuscire un casco fittamente boccoluto, fresco di tintura. Luigina era più vecchia di Paolo, potremmo dire che all’epoca rientrava bene nella definizione di “persona anziana”. Tuttavia la sua determinazione nel curare il proprio aspetto sfiorava il maniacale. Anche se era sempre stata una figura frettolosa e nervosa e affaccendata oltre misura, mai e poi mai l’avresti potuta scorgere con una ciocca di capelli fuori posto o con una camicetta sgualcita. Era sempre impeccabile. E messa accanto a lui, che nulla aveva mai fatto per curare il proprio aspetto, Luigina sembrava quasi una sua coetanea.

Paolo, preoccupato, rincalzò: «Ma tu le hai sentite le campane?»
Al che lei lo guardò con ancora più disprezzo del solito, forse credendolo ubriaco o rimbambito definitivamente, e urlò: «Certo! Don Nicola voleva provare se il meccanismo era ancora buono!»
«E chi morbo è Don Nicola?!» sbottò Paolo.
Al ché la signora Luigina, disgustata, s’avviò a passo svelto verso casa, degnandolo soltanto di una risposta fugace: «È arrivato il nuovo prete, caro Paolo!»
Mentre lei si allontanava facendo scoppiettare i suoi tacchi bassi sul piazzale, Paolo rimase imbambolato a chiedersi «Il nuovo prete? Ma come? Da quando? E chi è?»

Torna all’indice di questo racconto

3

Questioni di famiglia

La notizia della presenza di questo nuovo parroco nella Chiesa di Santo Spirito scosse Paolo non poco. Il suo stato d’animo già inquieto da mesi e il suo carattere di per sé sempre molto diffidente furono subito terreno fertile per una spontanea antipatia.
Quella mattina non se la sentiva più di restare nei paraggi della chiesa e il pensiero correva al vecchio parroco e a quanto, tutto sommato, fosse stato una presenza positiva in quel quartiere. Come si fa a sparire così?
E poi non trovava accettabile che la gente si fosse già scordata di lui e lo avesse rimpiazzato con tanta facilità. Un anno bastava per cancellare del tutto l’esistenza di una persona?
“E io? Se per un parroco così ben voluto è bastato un anno per essere dimenticato, per me che in questo paese sono l’ultimo chiodo della carriola, basteranno cinque minuti per eliminarmi da ogni registro?”
Immalinconito da questo tipo di riflessioni, camminando distrattamente si ritrovò infine davanti casa.

Da una tortura autoinflitta ad un’altra.
Se l’idea di un nuovo prete era stata sufficiente a buttarlo nell’apprensione e nell’autocommiserazione più nere, figuriamoci cos’era capace di fargli la visione di quella casa!
Era casa sua, ma non era mai stata davvero sua. Era la casa della sua famiglia da più generazioni di quante ne avesse conosciute. Era la casa di suo padre e di suo nonno e…
A Paolo pareva che ogni singolo blocco di tufo mezzo sbriciolato, ogni lembo di calce crepata e pure tutti gli infissi di legno gonfi d’umidità, fossero ciascuno un monumento innalzato per onorare la sua merdosissima esistenza.
La delusione dei propri genitori e il disappunto dei nonni e il rancore di tutti i membri della sua famiglia – tutti oramai morti da almeno un quarto di secolo – tornavano vividi nel cuore di Paolo non appena girava la chiave nella toppa dello scuro portone d’ingresso.
Nessuno dei Tignusi era mai riuscito, non dico a capirlo, ma almeno a perdonargli quella sua diversità. La sua non era mica una scelta, era piuttosto una condizione, un handicap, un difetto che gli aveva reso impossibile – per quanto duramente ci avesse provato – continuare l’attività di famiglia.
Così come suo nonno Paolo aveva trasmesso il mestiere al proprio figlio, allo stesso modo questi, il padre del piccolo Paolo, aveva sperato di fare con lui.
Ma in quella casa, tanto legata alla tradizione e i cui abitanti erano imbevuti di una fede incrollabile, nessuno si aspettava in alcun modo una disgrazia simile.

Il mestiere particolare che i maschi della famiglia dei Tignusi – e eccezionalmente anche alcune femmine – portavano avanti sin dalla notte dei tempi era quello di “ciarauli“.
A metà strada tra un rabdomante, un medium e un prestigiatore da circo, la figura del ciaraulo era sempre stata fonte, in egual misura, di diffidenza ma anche di devozione. La paura e il disprezzo nei confronti di questi eccentrici personaggi, non avevano mai impedito alle persone di ricercarne i servigi ogni volta che ce ne fosse stata la necessità. E, una volta risolto magicamente il problema, un compenso in denaro o in beni di prima necessità era la norma.
Questi servizi spaziavano dal leggere il futuro di una persona, nelle carte o nei fondi di caffè poco importava, al trovare il punto esatto in cui scavare un pozzo per l’acqua o anche – ed erano le giornate più redditizie – piccoli esorcismi o disinfestazioni.
Queste ultime due tipologie di contratto prevedevano lo stesso medesimo impegno da parte dei Tignusi e, anche se apparentemente molto differenti per natura, si trattava in entrambi i casi di battaglie più spirituali che terrene.
I rettili, gli insetti, così come certi roditori, con e senza ali, erano infatti da sempre credute come manifestazioni del soprannaturale. Del maligno in particolare. Di conseguenza, quando i normali disinfestatori fallivano nel proprio compito o – come molto spesso accadeva – quando i segni, da parte del demonio di turno o dello spirito del parente defunto che fosse, erano più che evidenti… allora non si perdeva tempo e si contattava il ciaraulo più vicino.
Negli anni passati questa attività aveva garantito alla famiglia di Paolo di campare dignitosamente e circondata da un’aura di rispetto del quale al giorno d’oggi nemmeno un medico o un notaio possono godere. E per molti anni anche il giovane Paolo aveva contribuito, con risultati altalenanti, all’attività di famiglia.
Eppure, tutto ciò era oramai nient’altro che un ricordo sbiadito dal tempo.
La tradizione fa risalire la storia dei ciarauli fino all’apostolo Paolo – non a caso il nome più diffuso in questa famiglia – che fu il ciaraulo per eccellenza, nonché storicamente il primo. Il Santo infatti aveva lasciato in eredità alla sua discendenza il divino potere di governare i serpenti, manifestazione biblica del demonio. Questa era proprio la punta di diamante tra le varie capacità attribuite ad un ciaraulo: incantare e maneggiare ogni tipo di serpe ed essere immune a tutti i loro veleni.
Ragion per cui in una famiglia di ciarauli avere un figlio senza gambe, senza braccia, sordo, cieco e muto avrebbe causato meno dispiacere e meno infamia di averne uno come Paolo, visceralmente e irrisolubilmente atterrito da ogni tipo di rettile strisciante o sgambettante sulla faccia terra.

In un momento di particolare concitazione e disperazione, i genitori di Paolo si sentirono costretti a tentare una via per loro inusitata e si rivolsero ad un medico di Agrigento, che aveva fama di essere un luminare. Ma questi si limitò a emettere la sentenza: «Signori, vostro figlio soffre di una forma acuta di ofidiofobia, ovvero paura irrazionale dei serpenti, c’è davvero poco da fare in casi come il suo!»
Dopodiché l’uomo di scienza arrivò a proporre di tentare la via dell’elettroshock o della lobotomìa. E, anche se il padre di Paolo in un primo momento si era mostrato interessato, alla fine non se ne fece niente. Fu la madre a mettersi di traverso.
Così il giovane incantatore di serpenti fu da quel giorno l’infelice portatore – con tanto di certificato medico – di questo originale stigma sociale all’interno della propria stessa famiglia.

A nulla valsero negli anni che seguirono i tentativi che lo stesso Paolo si impose per riuscire ad esorcizzare in qualche modo la sua più grande paura. Arrivò anche a coprirsi il corpo di vari tatuaggi raffiguranti boa, cobra o persino – sulla spalla destra – una testa di Medusa, dai capelli viperini e dalla quale partivano tre gambe divergenti, come sulla bandiera siciliana. Mentre al centro del petto si fece imprimere un grande circolo formato da un serpente scaglioso che si morde la coda, un altro antico simbolo detto ouroboros.
Ma tutta questa arte e tutta la sua buona volontà non fecero arretrare di un passo il terrore immane che il contatto, o anche solo la vista, della pelle di un vero rettile gli scatenava.
Inutile dire quanto negli anni questa sua peculiarità lo portò infinite volte a scornarsi con il proprio padre. Cosa che inevitabilmente lo costrinse pian piano ad allontanarsi dal mestiere di famiglia, optando per lavoretti saltuari di altro genere.

Ad aggravare ulteriormente la situazione aveva contribuito anche la sempre crescente antropizzazione del territorio circostante il paese.
Gli sbancamenti delle colline sempre più frequenti, l’agricoltura a base di pesticidi, la bonifica delle zone acquitrinose e l’inarrestabile edilizia selvaggia avevano ridotto anno dopo anno lo spazio vitale della fauna selvatica, riducendo drasticamente il numero degli esemplari. Per un ciaraulo il governo della natura, e delle bestie in particolare, era da sempre la fonte del pane quotidiano. Venendo a mancare questa – la natura selvaggia – si sgretolava l’importanza e il significato stesso di quell’antica arte.

Così a Paolo, giunto ormai non troppo lontano dalla soglia dei sessant’anni, di tutto quel mondo di misteri, di tradizioni e di onore, non restava altro che una vecchia casa nel cuore del quartiere di Santo Spirito, alcuni bizzarri tatuaggi, un gatto semirandagio di nome Ouroboros – l’unico ad abitare quella casa insieme a Paolo – e una marea di cianfrusaglie appartenute ai suoi avi e delle quali non riusciva a trovare la forza di sbarazzarsi.

Torna all’indice di questo racconto

4

Il prete prestigiatore

Nelle settimane successive all’arrivo del nuovo parroco, Paolo evitò con attenzione di avvicinarsi troppo alla chiesa, tenendosi alla larga a malincuore anche dalla sua panchina.
Ciononostante il suo girovagare abituale non si discostava più di tanto da quella parte del quartiere. Circospetto e ignorato come sempre da tutti, indugiava nell’osservare e analizzare ognuno di quei minimi cambiamenti che avvennero nelle abitudini quotidiane degli abitanti di Santo Spirito. In particolare i frequentatori più assidui della chiesa, i più devoti tra tutti, furono coloro che mostrarono i cambiamenti più evidenti.
In realtà, tali modifiche alle abitudini potevano sembrare evidenti soltanto a un osservatore molto attento e dalla forma mentis a dir poco peculiare, quale era Paolo. Per chiunque altro la novità della riapertura della chiesa non aveva causato nessun effetto collaterale, a parte la ritrovata frequentazione delle messe e delle altre attività religiose che coinvolgono ogni normale comunità di cristiani credenti e praticanti, quale non era Paolo.

Nello specifico lo avevano lasciato perplesso certe passeggiate notturne – fino ad allora sua esclusiva – di alcuni suoi vicini di casa. Uomini anziani, mamme di famiglia e pure ragazzi adolescenti, che a passo sostenuto andavano e venivano proprio dalla chiesa di Santo Spirito. Sgusciando furtivi dal portone socchiuso della sagrestia. Non che di giorno questo via vai si placasse. Semplicemente si notava di meno, in mezzo al normale traffico diurno.
Di certo non si doveva trattare di un’attività sociale, visto che ciascuno di loro camminava a testa bassa, scantonando ogni volta che c’era il rischio di incrociare il reciproco cammino.

Una mattina, quando la curiosità superò per dimensioni la sua innata ritrosìa, Paolo tornò a sedersi sulla panchina antistante la chiesa con uno scopo ben preciso. Voleva intercettare la prima persona che avrebbe visto uscire dal portone della sagrestia.
Per molte ore il piazzale polveroso rimase deserto e silenzioso, tanto da fargli dubitare ad un certo punto di essere rimasto finalmente l’ultimo uomo sulla Terra. Purtroppo, la sua gioia data da quell’idea di liberazione definitiva dovette placarsi nel momento in cui dal portone fece capolino Carmelo, il giovane chierichetto che serviva messa già con il compianto don Baldassarre. E che probabilmente adesso lo avrebbe fatto – o già lo faceva – con questo don Nicola. “Venduto!” pensò Paolo, prima di buttargli una voce e fargli cenno di avvicinarsi.

Carmelo era un ragazzino spigliato per la sua giovanissima età, sempre in tuta e scarpette da corsa o direttamente con il completo da calcetto, ma anche molto disinibito e per nulla spaventato dalle persone. Paolo, vedendolo avvicinare così spavaldo e con lo sguardo sveglio, non poté non provare un lampo fugace di simpatia, che scacciò repentinamente com’era abituato a fare con tutti i tipi di sentimenti positivi che saltuariamente potevano nascergli in cuore nei confronti di chicchessia.
«Carmé, che mi cunti?» esordì Paolo.
«Niente, tutto a posto, Paolì. Che ti serve?» rispose spartano il ragazzino, con forse un po’ troppa confidenza data l’enorme differenza di età con il suo interlocutore.
Ma Paolo sorvolò e andò dritto al punto della sua personale indagine: «Com’è sto prete nuovo? Come si chiama…ehm…Nicola, com’è? È bravo?»
Carmelo già annoiato o forse disturbato dalla conversazione si limitò a fare spallucce e a guardarsi intorno, come in cerca di una via di fuga.
«È diverso da don Baldassarre, vero?» insistette Paolo.
«Eh sì! È più giovane e parla diverso e…fa cose diverse…»
Il tono di voce del chierichetto si era abbassato all’improvviso e parte della sua sicumera pareva essersi dissipata.
«E che fa di diverso? Dice messa ballando?» disse, sperando di smorzare la tensione.
Il ragazzino sorrise e accolse quello sfottò per riprendere un po’ della sicurezza iniziale. Quindi cantilenando disse: «No, non balla… però fa… fa il mago. Sa fare i trucchi. Non li fa sempre, ma ogni tanto fa spuntare qualcosa che non c’era. Sono trucchetti, io lo so, ma sembra vero!»
Stupito dalle parole di Carmelo, Paolo sbottò: «E cos’è che fa spuntare? E quando lo fa? Tu che hai visto? L’ha fatto davanti a te sto trucco?» Erano troppe domande e il ragazzo parve un attimo confuso, ma subito riprese a dire, quasi sussurrando: «Sì, lo ha fatto anche a me. Mi stava confessando e io gli raccontavo le cose mie e… a un certo punto mi ferma e mi spiega che i peccati sono come macchioline nere sulla nostra anima bianca e che con la confessione le facciamo uscire fuori. Allora mi si avvicina e mi prende la mano e ci mette la mano sua di sopra, così…» Fece una breve pausa, portando intanto una mano sopra l’altra a formare una cupola, per mostrare a Paolo il dettaglio di quella scena. «E poi mi ha detto di dire un altro peccato che avevo fatto e che ero pentito e che se era vero succedeva una magia. Io gli ho detto una cosa che avevo fatto a scuola e che ero pentito e lui toglie la mano e io… nella mia mano c’era… che prima non c’era… una pallina nera! Ma non era una pallina, aveva le zampe! Era uno scarafaggio! Di quelli neri, piccoli… Che schifo!» Finito il racconto, Carmelo scoppiò a ridere di gusto, un po’ per scaricare la tensione che quella storia gli aveva causato e un po’ per schermirsi della propria immotivata paura degli insetti.
Paolo era rimasto a bocca aperta e senza più parole. Rimase a fissare il ragazzino ancora per qualche secondo e poi, non sapendo cos’altro dire, chiese: «Ma poi lo scarafaggio…?»
«S’è messo a correre sulla mia mano e poi è caduto a terra e poi ha continuato a correre velocissimo e poi…boh…è scomparso in un buco nel muro.»
Una volta risposto a questa ennesima domanda, Carmelo, da vero sportivo e considerando la conversazione esaurita, alzò un braccio in segno di saluto e fece uno sprint che in poche falcate lo fece sparire dietro l’angolo, lasciando Paolo nuovamente da solo.
Ma oramai l’euforia da ultimo uomo sulla terra era svanita, lasciando spazio ad altri pensieri più cupi.

Torna all’indice di questo racconto

5

Primo contatto

Quello stesso giorno Paolo attese la fine della liturgia pomeridiana e, una volta che il piazzale antistante la chiesa fu sgombro di fedeli, si decise ad entrare.
La facciata color sabbia dell’antico tufo, che componeva la struttura esterna della chiesa, all’interno lasciava spazio al bianco della calce, screziato qua e là da puntini di muffa nera. Innumerevoli le nicchie che ospitavano un’infinità di statue lignee di santi intagliate in ogni foggia e misura che si possa immaginare. La foglia d’oro o d’argento che decorava i dettagli “divini” di tali statue – le aureole sulle teste, le fiamme della fede che ne bruciavano i petti, i rosari e i calici nelle loro mani di legno – rilanciava i riflessi delle finte candele elettriche poste sull’altare e sui finti candelabri appesi alle grandi colonne.
Ad una prima occhiata, man mano che gli occhi di Paolo si abituavano alla semioscurità, tutte e tre le lunghe navate parvero vuote. Tanto che poteva sentire rimbombare l’eco dei propri passi.
Eppure, quando fu quasi sotto l’altare principale, si vide sbucare dal nulla proprio il parroco. Fino ad allora non l’aveva mai visto da vicino, ma solo da lontano durante i suoi appostamenti ai margini del piazzale lì di fronte.
Adesso che se lo trovava a portata di sputo, si rese conto di quanto non gli piacesse nemmeno un pochino.
Questo don Nicola era, sì, secco e lungo, ma la curva in avanti, che la sua schiena faceva nel tratto che va dalle scapole alla nuca, lo accorciava di diversi centimetri e gli dava un’aria deprimente. Ma la cosa che più scosse l’animo di Paolo fu la sensazione di unto e viscido che la pelle del suo volto butterato gli trasmise. Gli ricordò all’istante la sensazione odiosa di quando in passato era dovuto entrare in contatto con una vipera o peggio ancora con una biscia bagnata.
Quasi cedette all’impulso di arretrare di qualche passo.

«Buon pomeriggio!» esplose con voce acuta don Nicola.
«Buon pomeriggio, padre. Io sono Paolo e…» esitò un momento, indeciso su come approcciare il don. Ma fu subito incalzato dal prete: «Io ti conosco. Sei un assiduo frequentatore dei pressi della chiesa, ma non altrettanto posso dire per quanto riguarda la messa. Mi fa piacere vederti qui dentro una volta tanto. Gesù riesce a parlare a tutti i cuori, anche a quelli più sordi. È sempre solo questione di tempo.» Accompagnò queste parole alzando un dito al cielo e scuotendolo qualche istante a mezz’aria.
Paolo si trovò in leggero imbarazzo, come fosse tornato ai tempi del catechismo. Blaterò confusamente qualcosa con tono di assenso, ma senza dire nulla d’intelligibile. E poi, ripreso in parte il controllo, chiese: «Ero venuto per sapere se mi poteva… se c’era la possibilità di… insomma… confessarmi. Sì, diciamo che ho un po’ di arretrati da smaltire. Non so se mi spiego.» L’imbarazzo si moltiplicò per cento volte con queste ultime parole, accompagnate da una risatina che cercava complicità, ma che da parte del prete ricevette un attimo di totale silenzio e immobilità.
Poi d’improvviso il prete, come ridestandosi da un sogno, assunse un’espressione contrita e allo stesso tempo smaniosa. «Purtroppo è appena finita la messa, adesso aspetto già una persona per lo stesso motivo tuo e poi devo subito correre alla Chiesa Madre per un’altra funzione. Il loro parroco è malato e lo devo sostituire io. Nulla di serio, per carità, solo un po’ di raffreddore mi dicono. Ma non posso tardare. Però, perché non torni stasera per le dieci? Per allora avrò finito con tutte le incombenze e ti potrò accogliere in sagrestia per parlare di tutto quello che vuoi, senza fretta.»
Pareva davvero combattuto nel pronunciare queste parole, quasi come se desiderasse mandare al diavolo la messa in madrice per dedicarsi alla confessione di Paolo.
A quest’ultimo l’invito notturno del don trasmise un brivido di freddo improvviso, ma cercando di dissimulare disse: «La ringrazio per la disponibilità, davvero. Stasera alle dieci verrò di sicuro a trovarla. Grazie ancora.» E iniziò ad indietreggiare ancor prima di aver completato la frase, mentre don Nicola rimaneva sorridente e curvo ai piedi dell’altare, abbandonando la posizione solo una volta che Paolo ebbe attraversato il portone centrale della chiesa.

Torna all’indice di questo racconto

6

Così tanti?

La luce arancione del tramonto accolse Paolo ridonando calore al suo corpo ghiacciato, dopo la breve ma tesa conversazione con il parroco. A giudicare dalla stanchezza delle sue gambe gli parve di aver fatto un chilometro di scale correndo. Non aveva mai retto bene allo stress e nella vita quasi tutto gliene procurava in grandi quantità.
Proprio mentre stava recuperando un contegno e stava valutando se tornare a casa o appoggiarsi sulla sua panca, una voce inaspettata e innegabilmente infastidita lo scosse all’improvviso.
«Non è che sei andato a dare fastidio a don Nicola?!» disse la signora Luigina.
«Cosa? Io? E perché?» balbettò Paolo.
«Ti ho visto uscire dalla chiesa. Guarda che don Nicola non lo devi disturbare con le tue…cose strane! Mi hai capito?» quasi gridava, mentre la sua faccia raggrinziva a vista d’occhio. «Sono finiti i tempi di don Baldassarre – che Dio l’abbia in gloria – che ti perdonava ogni stramberia! Vedi di stare alla larga, in chiesa si prega, chi ci crede. Chi non ci crede non passa le giornate a fare dentro e fuori da un luogo sacro, come fai tu. Cercati un altro posto per stare al fresco o per prendere il sole. Perché non vai al bar come fanno tutti quelli come te?»
Paolo non si aspettava questo attacco così furioso e diretto, ma allo stesso tempo nessuna delle cattiverie di Luigina lo stupiva. Anche se questa era la prima volta che gli gridava in faccia così senza filtri, era pur vero che sempre le si leggeva in faccia il disprezzo che provava nel trovarselo tra i piedi. E poi non era di certo la prima volta che veniva scacciato come un cane randagio da parte di un suo compaesano. Quindi si limitò a dire: «Hai ragione, Luigì, me ne vado al bar. Ciao. Tu vai che il prete aspetta te e ha pure fretta.» Dicendo ciò, si voltò con una piroetta e, dando le spalle alla donna, s’incamminò ciondolando verso casa.

Luigina si costrinse ad accompagnare con lo sguardo Paolo fino a vederlo scomparire dietro l’angolo, assicurandosi che non tornasse ad appollaiarsi subito su quella stramaledetta panchina. Quante volte aveva spiegato a don Baldassarre – che Dio l’abbia in gloria – che avrebbe dovuto farla smontare quella brutta panca. Secondo lei rovinava la facciata della chiesa e attirava troppa… gentaglia. Ma niente, il vecchio prete era troppo distratto e privo di polso secondo Luigina.
Ai suoi tempi un sacerdote era il capo della comunità, un uomo da rispettare e che si faceva rispettare. Tra il catechismo e l’addestramento da leva militare sarebbe stato difficile trovare delle differenze. Adesso invece tutto era lecito, tutto era permesso. Ma in cuor suo l’anziana e nostalgica donna osava nutrire delle speranze riguardo questo nuovo prete. Sin da subito le aveva dato l’idea di essere un uomo di chiesa d’altri tempi, con una fede pura non sporcata da idee progressiste, un uomo gentile ed educato come non se ne vedevano da tempo. Inoltre le era parso che il ragazzo possedesse un qualcosa, un carattere rigido, forte. Chissà!
All’improvviso le tornarono in mente le ultime parole di Paolo e che don Nicola l’aspettava per confessarla. Quindi si ridestò dai suoi sogni ad occhi aperti e corse dentro la porta della sagrestia.

Don Nicola era seduto su un antico ma umile scranno di legno scuro e, curvo su una piccola bibbia logora, leggeva e mormorava tra sé e sé. Quando il salone rimbombò dei passetti marziali di Luigina, il giovane parroco alzò la testa e accolse la vecchia vedova con un sorriso luminoso.
«Scusi il ritardo, don Nicola, ma è che qua fuori mi sono fermata a rimproverare un bambino che si comportava male e mi ha fatto perdere tempo.»
«Non ti preoccupare, mia cara, ne ho approfittato per ripassare un po’ un passo della Sacra Bibbia» disse chiudendo il libretto e mostrandolo a Luigina. «Questo non è un libro che basta leggerlo una volta e poi metterlo di lato. Si può leggere mille volte e ogni volta è come la prima. C’è sempre qualcosa di nuovo da imparare.»
Luigina si limitò ad annuire incantata.
«Ma veniamo a noi, vieni e siediti su questa seggiola accanto a me e dimmi… dimmi tutto.»
Portandosi due dita sulla fronte e poi sul petto e quindi tirando una linea tra la spalla sinistra e la destra, il sacerdote incominciò subito a impartire il sacramento alla donna. E, una volta pronunciate le parole di rito, aggiunse: «Siamo tutti grandi peccatori agli occhi dell’Onnipotente, che tutto vede e tutto sente. L’unico modo che abbiamo di salvarci dal tormento eterno è confessare e pentirci di ogni nostro peccato, dal più piccolo al più grande. Ora apri il tuo cuore e presenta i tuoi peccati al Signore Dio nostro.» Curvò nuovamente il capo sulle mani giunte e si mise in ascolto.

Luigina iniziò così a snocciolare una serie di peccatucci veniali, compatibili con la vita di una signora anziana, vedova e devotissima. Qualche piccola gelosia nei confronti di una vicina di casa, la perdita di pazienza con una parente rompiscatole o un paio di innocenti peccati di gola.
Don Nicola ascoltava assorto, annuendo leggerissimamente con la testa. Tuttavia, nel momento in cui la donna finì la sua narrazione, egli alzò lo sguardo e scagliò su di lei un’occhiata che le fece torcere istantaneamente lo stomaco. Le sembrò che il prete avesse di nascosto indossato una maschera completamente diversa dal volto sorridente che le aveva mostrato fino a qualche minuto prima. Adesso le sue sopracciglia erano inarcate come le ali di un rapace in picchiata sulla sua preda. Mentre il sorriso aveva lasciato posto ad una specie di ghigno a denti stretti, pareva che da un momento all’altro le sarebbe saltato addosso per picchiarla ferocemente.
Ma dopo un lunghissimo momento di silenzio don Nicola iniziò a sussurrare: «Il Signore Onnipotente ha uno sguardo che trapassa il cielo, le montagne, i tetti delle case e… la carne. Possiamo noi anche solo pensare di celare i nostri peccati… i nostri veri peccati… alla Sua vista? Io non credo proprio. E ricorda che Egli conosce il nostro futuro e, soprattutto, vede il nostro passato in ogni piccolo, insignificante dettaglio. A volte anche quello che noi nascondiamo a noi stessi.»
Luigina non sapeva più chi avesse davanti, sentì crescergli dentro un timore sconvolgente, come se si trovasse al cospetto di un angelo vendicatore mandato da Dio a punirla per tutti i suoi peccati.
Così, senza nemmeno rendersene conto, iniziò a piangere e si butto giù dalla sedia cadendo sulle povere vecchie ginocchia. Giunse le mani e, come una supplica, ricominciò a enunciare l’elenco dei propri peccati. Solo che stavolta non si trattava più di peccati veniali, affatto.

Quando, poco più che adolescente, aveva conosciuto quello che di lì a poco sarebbe diventato suo marito, Luigina ancora non aveva idea di portare dentro di sé il “tocco del Demonio”. Il matrimonio e la prima notte di nozze furono per lei il primo contatto con il mondo del sesso.
E anche se quella prima esperienza fu breve e in qualche modo al di sotto delle sue confuse aspettative, ugualmente fu sufficiente ad aprire le cateratte dei suoi desideri più indicibili. Sentì schiudersi un mondo di infinite possibilità carnali da percorrere e non ci volle molto prima che decidesse che suo marito non era in grado, per natura e per mentalità, di accompagnarla in quel viaggio fisico e sensuale.
Negli anni che seguirono mai le mancarono uomini sempre nuovi con i quali sperimentare aspetti prima inesplorati del piacere carnale.
Com’è ovvio aspettarsi, la gente del paese ci mise poco a notare queste sue abitudini libertine e a giudicarla come una sgualdrina indemoniata.
Quando le voci arrivarono anche alle orecchie del marito, questi reagì nel peggiore dei modi possibili. La giovane Luigina, quindi, si trovò presto costretta a fare una scelta: da un lato c’era l’onorabilità del suo matrimonio e le botte di un marito ormai folle di gelosia, mentre dall’altro lato c’era la propria felicità, libera da ogni costrizione.
Una mattina, tornando a casa dal mercato, rimase impietrita alla vista del corpo del marito steso sul pavimento alla base delle scale, scomposto come un pupazzo di stracci. Un malore o un inciampo dovevano averlo fatto ruzzolare giù dal primo piano. Ma anche se molte ossa erano visibilmente fuori posto, se non del tutto spezzate, l’uomo era ancora vivo. Immobilizzato e mortalmente ferito, respirava a fatica, ripetendo all’infinito la sua richiesta d’aiuto: «Luigina, amore mio, aiutami… aiutami…»
Infine, quindi, era giunto per lei il giorno della scelta. Era stata la Vita – o la Morte – a porgerle ineludibile la fatidica domanda, mettendola di fronte al bivio.
Così la donna, dopo essersi riavuta dal primo momento di stupore, si chiuse la porta di casa alle spalle, portò con calma il sacchetto della spesa verso la dispensa e ne estrasse lentissimamente le mele che aveva acquistato al mercato poco prima, disponendole una ad una in una cesta di vimini.
Quando ebbe finito di riporre anche l’ultimo frutto, quasi nello stesso istante, udì il rantolo che poneva fine alla sofferenza dell’uomo nella stanza accanto e dava inizio per lei ad una nuova vita.
Purtroppo, negli anni che seguirono la libertà acquisita in quel modo tragico si tramutò per Luigina in un nuovo inferno, fatto di segreti e menzogne. Ed ecco che, senza rendersene conto, divenne lei stessa come quelle persone bigotte che l’avevano tormentata tutta la vita, severe con le mancanze altrui ma cieche e smemorate con le proprie colpe.

Luigina singhiozzava ancora, inginocchiata e quasi prostrata ai piedi di don Nicola, dopo la lunga e straziante confessione. Ci mise un po’ a ritrovare il coraggio di alzare il capo e incontrare lo sguardo del sacerdote. Adesso lo sguardo di don Nicola era tornato benevolo e sorridente, come prima. Pareva soddisfatto del sincero pentimento di Luigina e, senza né un commento né una domanda, raccolse le mani della donna tra le proprie e impartì l’assoluzione.
L’anziana signora, nonostante il crescente dolore alle ginocchia, si sentì inondare dalla Grazia di Dio ed era sul punto di scoppiare in una risata liberatoria e di gratitudine quando, inaspettatamente, iniziò a sentire un formicolìo sui palmi delle mani.
«Adesso puoi andare, figlia mia, i tuoi peccati non ti appartengono più. Il loro peso ha abbandonato la tua anima e non fa più parte di essa, perché Dio è misericordioso oltre ogni misura. Vai e non peccare più!» Con queste parole don Nicola la congedava, allontanando le proprie mani da quelle della donna.
Solo in quel momento Luigina potè dare libero sfogo ad un urlo d’orrore che le era rapidamente cresciuto in gola. Adesso vedeva la natura oscena di quel formicolìo. Sulle proprie mani, composte a formare una coppa, erano apparsi dieci coleotteri neri come la notte.
Gli scarafaggi avevano già iniziato a risalire lungo gli avambracci, quando la donna urlante scattò in piedi e si lanciò in una corsa furiosa e scomposta verso l’uscita.
Don Nicola si alzò lentamente e la seguì fino alla soglia, dalla quale la vide allontanarsi attraverso il piazzale, lasciando una scia di piccole palline nere zampettanti. Dopodiché si assicurò che non ci fossero stati spettatori e, rientrando, si chiuse la porta alle spalle.
Alcune di quelle creature, incarnazione dei peccati della vecchia, erano cadute sul pavimento della sagrestia e adesso correvano in diagonale verso la porticina che conduceva alla cripta, scomparendo in una fessura della parete proprio lì accanto.
Il prete, raccolta la bibbia dallo scranno, aprì la porticina e curvandosi più del solito sparì al suo interno.

Torna all’indice di questo racconto

7

L’uomo senza onore

Quella sera, pochi minuti prima delle dieci, don Nicola, avendo terminato tutte le incombenze che il suo ruolo di parroco imponeva e avendo anche abbondantemente cenato, andò ad aprire nuovamente il portone della sagrestia, per lasciarlo accostato nell’attesa del prossimo fedele.
Quel Paolo, così mal ridotto, doveva aver vissuto una vita torbida. Di certo portava con sé un fardello di peccati enorme. E non era forse questo che l’Angelo gli aveva chiesto? Liberare i parrocchiani dai propri peccaminosi fardelli. Più gravi e numerosi fossero stati e più graditi sarebbero stati al Padre, origine e fine ultimo di ogni vita.
L’umiltà del giovane parroco vacillava al solo pensiero che Egli, dall’alto dei Cieli, avesse guardato in basso verso l’ultimo dei suoi servi. Come poteva Nicola riuscire in una così grande impresa, reputarsi degno di una tale responsabilità? Eppure Dio aveva scelto proprio lui e aveva mandato il suo Angelo proprio in quella parrocchia. Non tutti ne erano degni. Ripensò al povero don Baldassarre, il cui sacrificio egli paragonava – con le dovute differenze – a quello di Cristo sulla croce.
L’Angelo aveva parlato chiaro: quello era il volere del Padre e la sua volontà è per noi indecifrabile. Adesso il potere dell’Angelo scorreva dentro le sue vene mortali e attraverso di lui si stava compiendo il piano di Dio.
Ma questi febbrili ragionamenti, che stavano avendo luogo nella testa del prete, furono interrotti bruscamente non appena davanti la porta apparve un volto tanto inaspettato quanto inquietante.
«Vastiano!» – lo riconobbe e la voce gli tremò – «Come ti posso aiutare?»
Il viso dell’uomo era gonfio e rosso, come tutte le altre volte che lo aveva incontrato, e l’espressione schiacciata come se stesse guardando dritto dentro il Sole. Ma, invece di ispirare simpatia, quel faccione incuteva timore al giovane prete.
La voce nasale dell’uomo aveva quella sera una nota più fragile che spiazzò ancora di più don Nicola: «Parrì, l’ultima volta che mi ha confessato… è stato… mi sono tolto un macigno da sopra il cuore. Ma io… c’ho una montagna che mi schiaccia l’anima! Mi deve confessare ancora! Devo liberarmi di tutto stavolta… ogni cosa.» Dicendo queste parole con tono quasi piagnucoloso, fece un passo avanti e gettò le mani imploranti sul petto del prete, il quale per l’impressione del contatto inatteso con quell’uomo terribile indietreggiò fin dentro la sagrestia.
«Ma, Vastiano, io aspetto già un’altra persona che si deve confessare. Questa cosa non possiamo farla domani mattina? Adesso è davvero tardi!»
«No, parrì, lo dobbiamo fare adesso! Troppo tempo ho aspettato per farlo!» quasi urlò Vastiano.
Solo a quel punto don Nicola, guardando l’uomo negli occhi, ricordò la propria missione, quella che l’Angelo gli aveva comandato. Quindi s’illuminò al pensiero di quanto potessero essere numerosi e terribili i peccati di uno come Vastiano.
Anche se lo conosceva da poco, gli altri parrocchiani non avevano perso tempo a dirgliene di cotte e di crude riguardo quel personaggio. E poi la sua prima confessione aveva portato a galla diversi peccati violenti. Anche se già allora aveva sentito che si trattava soltanto della punta dell’iceberg, sul momento non se l’era sentita di scavare più affondo in quell’anima nera.
Ma adesso era pronto!
«Va bene, caro, vieni dentro e affida le tue sofferenze al Signore.»
«Grazie, parrì, grazie!»

Vastiano, una volta che la porta fu chiusa alle sue spalle, nemmeno aspettò l’inizio del rito e subito, come una diga che si frantuma, iniziò a liberarsi dei propri peccati.
«Sa, io ho sempre avuto una visione tutta mia del mestiere che faccio, della mia parte nell’organizzazione. Si arriva al punto che certe cose vanno fatte fino in fondo, altrimenti, se si lasciano scappatoie qua e là, il sistema va tutto a pezzi, come un castello di carte.
L’anarchia è molto peggio di quello che faccio io. Il rispetto, la pace sono cose che nessuno ti regala e bisogna usare la forza per ottenerli e mantenerli. Senza uomini come me, non ci sarebbe più niente qui attorno. Il caos, la confusione, ogni testa un tribunale e non ci sarebbero strade, ponti, scuole… chiese.
Io non decido cosa va fatto, non è quello il compito mio. Ma so che quando chiamano a me, è perché ci sono situazioni troppo ingarbugliate e serve qualcosa per… sciogliere i nodi.
Non mi da piacere quello che faccio, Dio mi è testimone, ma è la mia croce e la porto come meglio posso da tutta la vita.
Ogni osso che ho spezzato è come se me lo fossi rotto io stesso, ogni vita che ho tolto è come se l’avessi tolta a me. Così, un pezzo alla volta, ora mi sento morto dentro. Ma dopo quello che lei mi ha fatto l’ultima volta…»
Don Nicola lo corresse al volo: «Non sono stato io, è il Signore che agisce attraverso di me, che sia chiaro! Io sono solo un uomo… come te.» Quest’ultima parte gli uscì a fatica.
«Certo, certo…» continuò Vastiano. «Ma è solo che voi, le cose che ho visto io, che ho fatto io… non potete saperle. E io ve le dico solo perché so che non sto parlando con un uomo, ma sto parlando direttamente al Padre Eterno e Lui i segreti li sa mantenere.» Un lieve tono di minaccia era emerso in questa premessa di Vastiano e il parroco rabbrividì di colpo, come se lo scranno di legno sul quale era seduto fosse diventato di ghiaccio.
«Mio caro, il Signore ti sta ascoltando, confidagli i tuoi peccati e mostra sincero pentimento. Solo così Egli ti darà la Grazia del Suo Perdono.»

«Ho tolto dalla circolazione, fino ad oggi, 87 persone. L’ultima il mese scorso, un avvocato di Agrigento che cercava rogne qui in paese. Non ricordo il nome. Molti li ho sparati e lasciati morti per strada. Per altri invece ho fatto sparire il corpo. Abbiamo una miniera di zolfo fuori paese, è abbandonata da tantissimo tempo e lì dentro ce ne ho buttati tanti negli anni. Assai. Lì non li cercherà mai nessuno, perché abbiamo anche messo in giro la voce che ci sono rifiuti tossici dentro la miniera. Tre anni fa un picciotto dell’ARPA, che forse s’era visto troppi film, aveva provato a chiedere dei controlli. Ma alla fine anche lui ci ho buttato là in fondo. Nemmeno il suo di nome mi ricordo.
I nomi che mi ricordo sono due: quello del giudice Lo Coco, un magistrato di quelli che se la cercano, che non sanno stare al proprio posto e… l’altro nome è Gabriele, Gabriele Sciascia, il padre è quello del pastificio ed è stata colpa sua quello che è successo al figlio. A questi due non li troveranno più. Li ho sciolti con l’acido e buttati a mare.»
Nicola sentì la cena spingergli contro l’esofago per uscire e dovette deglutire con forza, sentendo il nome del bambino. Per anni quel nome era stato su tutti i notiziari e sui quotidiani. Le ricerche erano state seguite con apprensione da tutta Italia. E solo adesso si rendeva conto che, come tutte le notizie sconvolgenti relative ai fatti di cronaca più gravi, anche la storia del piccolo Gabriele era ormai passata nel dimenticatoio.
Vastiano continuò: «Nessuno mi ha chiesto di scioglierli. È una cosa che ho deciso io, per rispetto. Mi era sembrato sbagliato buttarli insieme agli altri o infilarli sotto il cemento del ponte nuovo per Licata. Lo Coco aveva sbagliato solo mestiere, ma si vedeva che dentro era un uomo d’onore. Le parole che mi disse quando lo stavo per ammazzare mi colpirono e me le porterò con me finché campo.
Il bambino poi… era un bambino e la miniera non è posto per un bambino, nemmeno per il riposo eterno. Prima di ammazzarlo gli ho chiesto se gli piacevano i pesci, se gli piaceva il mare. Tra le lacrime mi fece cenno di sì con la testa. Così ce l’ho portato. Per rispetto.»

Ascoltare il monologo di Vastiano era sembrato a don Nicola come sentire il discorso di un robot, privo di sentimenti. Il piagnucolìo di poco prima aveva lasciato subito spazio ad un tono monocorde che non lasciava trasparire niente di quello che l’uomo stesse provando. Come un tecnico, un ingegnere o un matematico, che parla di numeri ed equazioni senza il minimo coinvolgimento emotivo.
Solo nel pronunciare il nome del bambino, la maschera di Vastiano s’era crepata per un istante, lasciando trasparire qualcosa di simile al rimpianto. Ma se c’era stata, si era trattata di una impercettibile variazione per cui don Nicola, con voce più dura che potè, gli intimò: «Se non mostri sincero pentimento, non troverai la pace che stai cercando!»
«Mi pento, mi pento di tutto, ero già pentito mentre le facevo tutte queste cose! Ma adesso ho capito che non ne è valsa la pena. Ho rinunciato a me stesso, alla vita che potevo avere. Non mi ha voluto sposare nessuna e non ho potuto avere nemmeno un figlio. E il Signore ha fatto bene a lasciarmi solo come un cane, altrimenti adesso non sarei qui a chiedere il Suo perdono.»

Il parroco lasciò passare un minuto prima di considerare conclusa quella terribile confessione, dopo di che, enunciò la formula del perdono, dando il via alla liberazione di quell’anima lacerata.
Lo spettacolo che ne seguì fu straziante.
Dapprima alcuni scarafaggi neri emersero lentamente dalle mani giunte di Vastiano. Ma presto ne apparvero molti altri sui suoi pantaloni e lungo maniche della giacca. In poco tempo furono decine i punti neri a brulicare sul corpo del peccatore.
Il viso rosso di Vastiano per un attimo si fece sorridente, illuminato da una nuova leggerezza. Ma durò poco. All’improvviso gli occhi sembrarono schizzargli fuori dalle orbite e la bocca gli si deformò in una serie di spasmi.
Don Nicola si alzò con uno scatto e si allontanò di qualche metro da quella scena.
Dalla gola di Vastiano ormai uscivano soltanto gorgoglii disarticolati quando, insieme ad un fiotto di saliva, esplosero fuori dalla sua bocca un esercito di coleotteri di tutte le forme e dimensioni, ma tutti neri come la notte.
Anche il prete non era pronto a tanto e d’istinto si portò le mani agli occhi per non vedere altro.
I terribili lamenti di Vastiano e il chiassoso zampettare di centinaia di insetti tutto intorno a loro continuarono per un tempo che gli parve infinito.

Ma ecco che infine nella sagrestia ritornò il silenzio.
Si sentiva soltanto il respiro affannato di Vastiano e l’ormai esile ticchettio degli ultimi scarafaggi che si riversavano nelle crepe della parete in fondo alla sala, accanto alla porticina della cripta.
Solo allora don Nicola, con estrema cautela, tolse le mani dai propri occhi e cercò con lo sguardo la sagoma accasciata del suo parrocchiano.
Questi, carponi sul pavimento, alzò lentamente il capo incrociando il suo sguardo. Era felice.
Non c’è altro modo di dirlo, quello era il volto di una persona serena, la cui anima è piena della Grazia di Dio. La sua espressione era piena di gratitudine nei confronti del giovane prete, tanto che alzandosi a fatica l’uomo si trascinò ad abbracciare Nicola con trasporto. Mentre questi cercò di mitigare il disgusto a quel contatto, pensando al grande risultato ottenuto agli occhi dell’Angelo di Dio.

Torna all’indice di questo racconto

8

Vedere per credere

Paolo, anche se non convinto del tutto dell’invito notturno ricevuto da parte del parroco, si era ugualmente incamminato verso la chiesa di Santo Spirito, per essere lì all’orario stabilito. Tra i tanti difetti che nella vita le persone gli avevano attribuito – e che in molti casi egli stesso ammetteva di possedere – di certo la mancanza di puntualità non era uno di questi. Per cui si ritrovò sullo spiazzo antistante la chiesa pochi minuti prima delle dieci.
Notò però che la porticina della sagrestia, sempre socchiusa quando il prete era dentro disponibile a ricevere i parrocchiani, era chiusa del tutto. Con cautela si avvicinò e tentò di aprirla con una leggera pressione della mano, ma niente.
Fu in quel momento che, il silenzio tombale del quartiere Santo Spirito a quell’ora della sera, fu rotto da un urlo strozzato, qualcosa come un forte lamento gorgogliante.
Paolo ci mise un po’ a capire che l’origine di quel brutto suono, qualunque cosa fosse, si trovava all’interno della chiesa. Al ché maledisse la propria puntualità. Magari arrivando con qualche minuto di ritardo avrebbe evitato questa… cosa.
Poggiando l’orecchio sul legno rigonfio del portone, si mise in attento ascolto. I lamenti si erano affievoliti, ma continuavano. Un’ondata fredda gli risalì dalle viscere al solo pensiero di forzare l’apertura di quel vecchio portone per entrare a vedere l’origine di quel suono. Quindi decise che se il parroco era impegnato in qualche bislacca attività clericale che prevedeva lamenti e gorgoglii, lui avrebbe educatamente aspettato il proprio turno. Forse era anche il caso di desistere e tornare direttamente a casa da Ouroboros.
Intanto che decideva sul da farsi, Paolo fece qualche passo per allontanarsi dalla facciata della chiesa e si mise in attesa in un angolo del piazzale, nel punto d’ombra tra due lampioni.
Si era preparato ad una lunga attesa e sussultò quando pochi minuti dopo il portone della sagrestia si aprì brevemente per fare uscire un uomo.
Dalla statura e dal volume riconobbe subito chi fosse, anche senza vedere nitidamente il rosso gonfiore di quel viso. Ma la cosa più grave fu che anche Vastiano lo vide e lo riconobbe immediatamente, nonostante la distanza e la scarsa luce. Infatti con uno scatto felino, incompatibile con la sua tozzaggine, Vastiano gli fu addosso in un attimo.
Paolo fece appena in tempo a vedere da vicino quei piccoli occhi ancora iniettati di sangue, come dopo un grande sforzo. E subito si sentì colpire al ventre e fu costretto a piegarsi in due per il dolore. Cadde in ginocchio sull’asfalto.
«Ma come ti viene in mente di seguirmi di notte?! A me! Forse è arrivato il momento di farti passare una volta per tutte sta curiosità che hai. Tignusu sta sempre a guardare tutto e tutti. Cent’anni fa quelli come te potevano valere qualcosa, ma ora sei meno che niente. Tuo nonno era un uomo, forse tuo padre, ma tu…» sputò a terra, mentre ancora teneva Paolo a terra, tirandolo per la collottola.
«Scusami, Vastiano, scusami! Io mica cercavo te, ero venuto solo a confessarmi! Mi aveva detto don Nicola che…» provò a spiegarsi Paolo. Ma il suo assalitore, anziché placarsi, parve infuocarsi ancora di più.
«Tu non lo devi guardare manco da lontano a don Nicola! Se ti rivedo qua davanti a curiosare o anche solo seduto su quella panchina a pigliare il sole, ti faccio sparire. Fai la fine di quell’altro che non si faceva i fatti suoi e ora nuota con i pesci. Ma a te nella fogna ti scarico, cosa inutile!»
Queste ultime terribili minacce uscirono dalla bocca di Vastiano come un ruggito a bassa voce, grattato e gorgogliante come i lamenti che provenivano poc’anzi dalla chiesa.
A Paolo non serviva guardarlo negli occhi per immaginarsi il rossore infernale di quel volto. E allo stesso tempo non esitò minimamente a prendere sul serio quelle minacce. Sapeva bene di cosa Vastiano fosse capace. Per cui decise di fare come le vipere, quando sentono un predatore avvicinarsi e non hanno via di fuga, si fingono morte, rimanendo immobili ed emanando cattivo odore. Allo stesso modo egli finse che gli cedessero le gambe – vuoi per il colpo allo stomaco, vuoi per la paura fottuta – e si lasciò cadere a terra steso su di un fianco. Sorvolò sulla parte del cattivo odore, anche se non era del tutto sicuro di non essersi già cagato sotto.
Vedendolo accasciarsi al suolo in quel modo, come il vecchio debole che era, il suo aggressore tirò un sospiro di indignazione e scuotendo la testa disse: «Maledetto Tignusu, già mi hai fatto uscire dalla Grazia di Dio!» E cacciando un fazzoletto di stoffa fuori dalla tasca si asciugò la fronte e il viso, imperlati di sudore.
Dopodiché, lanciando un ultimo sguardo disgustato a quel derelitto d’uomo steso a terra come un cane randagio, Vastiano si allontanò con tutta calma nella notte.

Rimasto lì a terra, da solo, a inscenare una sofferenza che era già quasi del tutto sparita, Paolo risolse l’indecisione di poco prima e decise che la cosa migliore era tornarsene subito a casa.
Soltanto che, riaprendo gli occhi, scorse avanti a sé il nero profilo zampettante di uno scarafagetto.
Quell’animale, apparentemente così insignificante, era per Paolo un indizio di qualcosa di più, un strano messaggio da parte di Madre Natura. L’antico mestiere di famiglia lo aveva costretto negli anni ad entrare in contatto con un’infinità di creature infestanti, principalmente rettili – purtroppo per lui – ma non solo. E poiché, come diceva sempre suo nonno, per vincere una battaglia devi sempre prima conoscere molto bene il tuo avversario, egli aveva sin da bambino dovuto studiare libri e libri di erpetologia e di entomologia.
Questa peculiare cultura che si portava nella testa era diventata più che inutile per lui da quando aveva abbandonato il lavoro di ciaraulo. Eppure in queste ultime settimane si era trovato a notare la comparsa di una nuova blanda infestazione nel quartiere di Santo Spirito.
L’amichetto nero lucido che correva sul piazzale della chiesa apparteneva all’ordine dei coleotteri, in particolare alla famiglia dei Tenebroidi – chiamati così forse per la loro predilezione delle ore notturne – e della specie dei Blaps Gibba. E, anche se non era affatto una specie aliena per quella provincia, era pur vero che fino a poco tempo fa non se ne erano mai visti in quel quartiere.
Anche posta così la questione non sembrava di per sé affatto grave, ma se sommata al racconto del chierichetto e alla brutta sensazione che da tempo rendeva inquieto lo stesso Paolo…
Si alzò rapidamente e seguì con lo sguardo il percorso che aveva fatto Vastiano allontanandosi. Distinse chiaramente sull’asfalto almeno altri due coleotteri, che insieme al primo tracciavano una linea retta, proprio verso l’angolo dietro il quale era sparito il suo aggressore.
Adesso però i tre scarafaggi sembravano incamminarsi per un’altra destinazione. Quasi in simultanea avevano virato verso un vicolo dall’altra parte della piazza, come se fossero appena stati chiamati da qualcuno o si fossero all’improvviso ricordati di un impegno.
Paolo ovviamente, già dimentico delle minacce appena ricevute, li seguì.

Lentamente i tre amici lo condussero di fronte ad una bassa casa dai davanzali pieni di gerani fioriti. Paolo sapeva chi abitava lì e sentì una stretta al cuore vedendo i coleotteri infilarsi sotto una delle persiane di quella casa.
Corse in avanti e si mise in ascolto. Si sentiva un tramestìo costante, come alluminio che viene accartocciato o come un falò che scoppietta. Ma non si vedevano bagliori di nessun tipo provenire dall’interno e nemmeno c’era puzza di fumo nell’aria.
Per un attimo pensò di provare a sfondare la porta d’ingresso, ma se si sbagliava? Se là dentro non stava succedendo nulla di strano? Come avrebbe spiegato l’irruzione? «Stavo solo inseguendo dei tenebroidi sospetti, maresciallo!» Già s’immaginava la scena.
Optò allora per dare una sbirciatina attraverso le stecche della persiana proprio accanto alla porta. Con due dita e un po’ di forza riuscì ad allargare le feritoie e a guardarci dentro.
Seppe subito che ciò che vide quella notte attraverso la finestra lo avrebbe tormentato per il resto della vita.
La televisione, poggiata su una madia in fondo alla sala da pranzo, era accesa e mandava lampi bluastri su quella terribile scena. Nello spazio tra la tv e il tavolo da pranzo s’era aperta una voragine nel pavimento. Pareva un pozzo artesiano. Ma da esso, anziché acqua cristallina, risaliva invece una melma scura e densa come fango o come petrolio.
Al tavolo da pranzo era ancora seduta Luigina, con il piatto della cena avanti a sé e il capo buttato all’indietro sullo schienale della sedia.
Guardandola, illuminata dalla luce baluginante della tv, a Paolo fu subito chiaro che quella marea nera che sgorgava dal cratere non era affatto fango, né altro tipo di liquido naturale. Si trattava di una colonia di scarafaggi, la più numerosa che egli avesse mai visto.
Gli insetti avevano coperto gran parte del pavimento e i mobili. Anche la povera Luigina era ridotta ad un parco giochi per scarafaggi, i cui esoscheletri luccicavano come migliaia di oscuri bulbi oculari, mentre salivano e scendevano lungo il suo corpo nutrendosene.

Inutile dire che tutto in quella scena era molto lontano dall’essere un naturale comportamento per quegli animali. La furia con la quale emergevano dal sottosuolo e l’avidità indemoniata con la quale divoravano quell’essere umano erano qualcosa che nessun entomologo sano di mente avrebbe mai descritto sulle pagine di un libro.
Qualcosa di maligno stava guidando quelle creature, qualcosa che Paolo aveva incontrato in un’altra branca dei suoi studi da ciaraulo, su uno di quei libri che non trovi in biblioteche normali… uno di quei libri che gli avevano causato anni di incubi e notti insonni.

Torna all’indice di questo racconto

9

Verso la fonte dell’orrore

Quand’ebbero finito il loro disgustoso banchettare sul cadavere dell’anziana donna, i coleotteri indemoniati vennero risucchiati dal buco della terra che li aveva sputati fuori. Intanto il bordo del cratere aveva ceduto ulteriormente, allargandosi fino ad inghiottire televisore, tavolo, sedie e quel che restava del corpo di Luigina.
Solo allora, quando la luminosità ectoplasmica della tv venne meno, Paolo riuscì a staccarsi dalla finestra e a richiudere con un colpo di mano le stecche della persiana. Era paralizzato nel corpo e nella mente. L’unica cosa fattibile era accasciarsi al suolo e lasciar scorrere il panico. E così fece.
Stando lì seduto sullo stretto marciapiede, con la schiena appoggiata a quella piccola casa degli orrori, si accorse che una ridotta – ma pur sempre numerosa – parte di quell’esercito brulicante di scarafaggi stava abbandonando il campo di battaglia riversandosi in strada. Dalle finestre, da sotto la porta e da tutte le crepe delle mura, sgusciavano via rapide come gocce di olio nero. Ma, al contrario di come si aspettava di vedere, sembrava che tutti quegli insetti sapessero esattamente quale fosse la loro prossima meta. Infatti, in poche mosse solo apparentemente scomposte, composero sull’asfalto un rigagnolo più scuro dritto e coeso.
A Paolo non servì chiedersi in quale direzione puntasse quella linea nera. Ormai era certo che l’origine di quella follia era in qualche modo la chiesa di Santo Spirito e quel nuovo pretucolo c’entrava, chissà come.
Allora scattò in piedi, come una marionetta tirata su da un burattinaio furioso, e corse nella stessa direzione dei coleotteri killer.

Il piazzale della chiesa gli si aprì davanti come un ampio foglio di pallida carta, steso a riflettere il bagliore giallastro dei pochi lampioni. A Paolo sembrò incredibile il contrasto tra il caos che c’era nella sua testa e il silenzio delle strade, tra gli orrori di cui era appena stato testimone quella notte e la placida quiete nella quale pareva immersa la chiesa.
La grezza facciata di tufo dava l’impressione di una falsa scenografia da teatro le cui dimensioni contratte non riuscivano a simulare la grandezza di una vera chiesa. Tutto sembrava più piccolo, vuoto, finto. Eppure l’agitazione che gli pulsava nelle tempie era davvero molto reale.
Attraversato rapidamente ma con circospezione quel palcoscenico vuoto, Paolo raggiunse la porta chiusa della sagrestia e, a colpo sicuro, la spinse con forza. Questa si spalancò scricchiolando e lasciando cadere grosse schegge di legno marcio e qualche vite polverizzata dalla rugine. Gli sembrò di aver spezzato un biscotto, tanto poco era stato lo sforzo necessario.
Una volta dentro la sala, accese la luce e non ebbe dubbio sulla direzione da prendere.
Il pavimento brulicava di punti neri che convergevano sotto la porticina della cripta.
Questa, se possibile, era anche più antica dell’altra porta e la ferraglia che componeva la serratura e i cardini era ormai pura decorazione. Infatti, a Paolo bastò tirare leggermente verso di sé l’anello di metallo attaccato al centro della piccola porta, perché l’ingresso ai sotterranei si aprisse davanti ai suoi occhi.
Per un istante si ritrovò a pensare che non era la prima volta che scendeva sotto la chiesa. Da ragazzino, quando ancora i suoi genitori lo costringevano a partecipare a qualche funzione religiosa – specie quelle in onore di San Paolo “riservate” a pochi fedeli selezionati – si era trovato diverse volte a scendere quella stretta scalinata.

La cripta, per quel che ricordava, non aveva mai avuto l’aspetto di una tomba sotterranea. Negli anni era stata utilizzata né più né meno che come un magazzino. Vi si trovavano accatastate vecchie statue lignee danneggiate, qualche copia ammuffita di dipinti seicenteschi, tonnellate di ceri mezzi sciolti, sedie di corda sfondate, lavoretti in cartapesta fatti da bambini che adesso dovevano avere almeno la sua età e tanto altro ciarpame religioso di varie epoche dimenticate.
Per cui l’immensa sala sotterranea, secoli prima luogo di inumazione e di silenziosa preghiera, di quel tempo remoto conservava solo le larghe e alte colonne scolpite nella pietra calcarea, che si univano in alto a formare un maestoso soffitto a crociera.

Adesso, poche lampadine ad incandescenza illuminavano la discesa, anche se troppo distanziate per evitare zone d’ombra qua e là. Paolo avanzava in punta di piedi per non toccare i numerosi scarafaggi che scendevano impazienti insieme a lui giù verso la cripta.
Il suono scricchiolante degli esoscheletri che battevano sui gradini, rapidamente fu coperto da un rumore molto più intenso ed inquietante. Egli lo riconobbe subito. Non aveva di certo già dimenticato la scena vista a casa della compianta Luigina. Era lo stesso scoppiettìo di vampa furiosa, come un grande fuoco che divora una foresta intera. Amplificato dalle pareti della grande sala di pietra là in fondo, suonava quasi come un ruggito. Il rombo minaccioso di una bestia selvatica che avvisa chi si addentra con troppa leggerezza nei meandri della sua profonda tana.

Torna all’indice di questo racconto

10

Peggio che nei libri

Saltato a pié pari l’ultimo scalino, perché del tutto coperto di coleotteri, Paolo si trovò sotto l’arco d’ingresso alla cripta vera e propria.
La flebile luce delle lampadine a incandescenza, distribuite sulle mura perimetrali dell’ampia sala, era come offuscata. Nuvole veloci e nere oscuravano a tratti la scena.
Prima di decifrare la bolgia infernale che si era palesata davanti ai suoi occhi, la mente sconvolta di Paolo si soffermò su di un terribile dettaglio marginale. Alla base di una delle colonne squadrate della prima fila, giaceva in una posizione innaturale un corpo in avanzato stato di decomposizione. La schiena era incredibilmente inarcata verso l’alto, mentre le braccia e le gambe erano piegate tragicamente come i petali smorti di un fiore oramai secco da tempo.
Dal petto fino al naso si apriva un unica lacerazione bruna, slabrata verso l’esterno, come frutto di un’esplosione interna. Di certo c’entravano quei dannati scarafaggi, gli stessi che adesso calpestavano distrattamente quel corpo ma dal quale non erano più attratti.
Quel poco che restava visibile della tunica bianca e dello scapolare viola aiutarono Paolo a riconoscere in quel cadavere il vecchio don Baldassarre.
Niente Caraibi per lui.

Ma non era tempo di commemorare il buon parroco, c’era un intero girone dell’Inferno che aveva traslocato la propria sede direttamente nel cuore della parrocchia di Santo Spirito. E adesso era proprio lì, a vorticare davanti ai suoi occhi increduli.
Paolo vide convergere al centro della grande sala, decine di impetuosi flussi di coleotteri neri di ogni forma e dimensione. Ciascun flusso proveniente da un diverso tunnel scavato grezzamente nella parete di pietra della cripta.
Al centro di questa scena torreggiava, come una tromba d’aria alta quasi a toccare gli archi del soffitto, un’immane ombra nera, le cui fattezze erano interamente composte proprio da quegli stessi insetti. Le braccia che si staccavano dal tronco si agitavano possenti a coprire abbondantemente la distanza tra due colonne. Qualcosa simile ad una testa era in formazione sulle sue rocciose spalle e, anche se al momento non c’era traccia di un volto di qualche tipo, Paolo lo stesso si sentì guardato e analizzato.
Capì subito che restare lì anche solo un altro minuto sarebbe significato per lui un biglietto di sola andata per le viscere di quegli insetti.
Così, senza più premurarsi di cosa poteva calpestare, si voltò e si gettò su per la stretta scalinata in una fuga cieca. La priorità adesso era mettere più chilometri possibili tra sé e quella follia entomologica.
Non si fermò una volta che fu in cima alla scala, non si fermò nella sala della sagrestia, non si fermò nemmeno sul piazzale della chiesa. Paolo corse e corse come un pazzo lungo le strade deserte del quartiere, senza nemmeno ricordarsi di respirare di tanto in tanto.
In quella fuga pareva un cavallo pazzo che con la bava alla bocca galoppa attraverso il deserto fino a farsi scoppiare il cuore.
I suoi passi tuonarono lungo il corso principale e lungo le stradine della periferia, fino a che le case si diradarono per poi scomparire quasi del tutto ed egli si ritrovò nel buio della campagna.
Soltanto allora si fermò per riprendere fiato.

Intanto i suoi occhi si andavano abituando alle tenebre e iniziava a riconoscere il punto in cui si trovava adesso. Davanti a Paolo la strada si biforcava, da un lato proseguiva con un tratto asfaltato che saliva su di un cavalcavia mentre dall’altro lato un sentiero sterrato scendeva con una curva verso il fiume Salato.
Questa divisione apparentemente innocua, portava con sé una biforcazione ben più importante agli occhi di Paolo. Egli infatti vide con chiarezza cosa lo aspettava se avesse imboccato ciascuna delle due strade che il destino aveva preparato per lui.
La strada asfaltata lo avrebbe portato a raggiungere il centro abitato più vicino – nemmeno cinque chilometri – nel quale aveva uno o due amici che con un po’ di insistenza da parte sua lo avrebbero ospitato per qualche giorno. Giusto il tempo di organizzarsi una fuga in qualche posto più lontano. Mica voleva fare la fine di don Baldassarre o di Luigina!
Al contrario se avesse percorso l’altra strada, quella senza asfalto, era certo che sarebbe andato incontro a una marea di merda. La trazzera che scendeva al fiume era la strada che avrebbe imboccato suo padre e anche suo nonno e senza esitare!
Ma lui era sempre stato… diverso.
Mentre questi pensieri lo tenevano impegnato, il ciaraulo aveva iniziato a grattarsi l’avambraccio destro.

Torna all’indice di questo racconto

11

Lezione sul campo

La strada sterrata che scendeva verso il fiume era chiara sotto la luce della Luna e circondata ambo i lati da lunghe e fitte canne. L’odore di terra bagnata si sentiva appena, anche perché quello che la gente del paese si ostinava a chiamare “fiume” era ridotto ormai a un melmoso rigagnolo. Il grande letto, che aveva scavato nei millenni passati, adesso era quasi del tutto secco, specie in quella stagione. La poca acqua che continuava a scorrere sul fondo era costretta a fare lo slalom tra i giganteschi macigni che, in tempi remoti, lo stesso fiume era stato capace di trascinare per chilometri e chilometri. L’unica traccia che rimaneva della sua antica potenza era proprio la levigatezza di questi sassi megalitici adesso immobili sul letto scoperto del fiume.
Tutto in questo scenario appariva bianco, come illuminato da una propria fluorescenza: la strada, il canneto, le rocce. E pure il fantasma del fiume luccicava facendo capolino tra i sassi.
Forse era merito del gesso che costituiva gran parte dei terreni di quella zona. O forse era il sale che da sempre questo fiume anomalo trasportava con sé fino al mare. Chissà!
L’unica cosa certa era che i maledetti lavori di scavo, fatti a monte e a valle per piazzare i pilastri di quell’orribile cavalcavia, avevano distrutto un habitat più che prezioso. Paolo ricordava ancora com’era selvaggio quel tratto del fiume quando lui, solo un bambino, si sforzava di seguire il padre in una delle sue “lezioni sul campo”. Scacciò questo pensiero e si avvicinò guardingo al sottile corso d’acqua.
Piazzatosi ritto sulla ghiaia a gambe larghe, si scoprì l’avambraccio destro, mostrando alla luce della luna una bizzarra voglia a forma di ragno. Subito iniziò a baciarla e strusciarci sopra il palmo della mano sinistra con vigore. Pareva volesse far ripartire una vecchia motocicletta, tanta era la foga e il senso di attesa. Ma nessun rombo di motore venne a disturbare la scena. Solo si sentiva la voce di Paolo che, prima sussurrando e poi urlando, ruminava una nenia quasi del tutto incomprensibile.

«San Paulu, a ttia ti fazzu stu salutu
ca teni st’animali vilinusu.
Ju lu sputu ri tutti li parti,
lu fazzu addivintari fraulusu

Idest incantans vel domans serpentes…

E cu n pilu ri capiddi
ri la Vergini Maria
st’animaluzzu attaccari vulìa

Idest incantans vel domans serpentes…
Idest incantans vel domans serpentes…

San Paulu, a ttia ti fazzu stu salutu…»

Un circolo vorticoso che si ripeteva ancora e ancora, un misto di dialetto e latinorum, a metà strada tra la filastrocca per bambini e un’antica preghiera cristiana. Ad ogni ripetizione di questa implorazione il ritmo aumentava e l’intenzione nella voce del ciaraulo cresceva sensibilmente.
Fino a quando uno scroscio quasi impercettibile d’acqua si fece largo nella sua direzione.
Paolo s’interruppe e osservò, con un misto di soddisfazione e atroce disgusto, la sagoma sinuosa e lucida di una biscia che solcava la bassa pozza d’acqua. Il rettile fuoriuscito dall’ombra di uno dei grandi sassi si diresse spedito verso i piedi dell’uomo, scivolò attorcigliandosi alla caviglia destra e poi su fino alle spalle. Paolo era totalmente pietrificato dal terrore quando sentì il tocco delicato e umido della serpe scorrergli attorno al collo come un cappio. In fine l’animale, che sembrava aver risposto alla sua chiamata, si andò ad avvolgere pacificamente attorno al suo avambraccio destro, proprio all’altezza della voglia di ragno. La testa morbida trovò spazio sul palmo della mano di Paolo, che delicatamente la strinse ma stando attento a non farle del male.
Si diede il tempo di far ripartire il proprio battito cardiaco e riottenere il controllo sulla propria respirazione, dopodiché avvicinò la testa dell’animale alla bocca per sussurrargli: «Grazie…»
A questo punto restava soltanto una cosa da fare. Per cui si voltò e subito si rimise a correre, attraversando al contrario la stessa strada che lo aveva portato fin lì.

Stavolta ogni fibra del suo corpo e ogni suo neurone erano spinti da un’unica grande e potente, anche se poco nobile, motivazione: mettere fine a quella pantomima il prima possibile, di modo da potersi togliere di dosso la viscida pelle di quella schifosissima serpe. Nulla adesso gli importava di tutto il resto. Né dei morti, né degli scarafaggi killer, né di quel demonio in formazione sotto la chiesa… La sua personalissima fobia al momento superava ogni altro aspetto dell’esistenza del pianeta.
Per potersi liberare della biscia, però, sapeva che prima doveva riuscire a mettere un tappo alla fogna infernale che si stava aprendo laggiù. Inutile illudersi che se ne sarebbe occupato qualcun’altro.
Con questa pragmatica visione della situazione ben chiara nella mente, Paolo raggiunse la chiesa e ridiscese ad ampie falcate la stretta scalinata che conduceva alla cripta. La già fievole luce delle poche lampadine si era ulteriormente ridotta, mentre la mole ronzante al centro della sala era cresciuta visibilmente.
Il ciaraulo richiamò rapidamente alla memoria tutti i passaggi dell’antico rito, ma all’improvviso gli si parò davanti la faccia butterata ed estatica di don Nicola. Paolo aveva proprio dimenticato l’esistenza di questo pretuncolo. Ma adesso che se lo ritrovava davanti, smanioso e blaterante, ricollegò immediatamente tutti gli eventi e l’odio gli fece venire il sangue agli occhi.
Il giovane parroco doveva aver percepito la furia del ciaraulo, tanto che cercò di ostacolarlo ma senza avvicinarglisi troppo.
«Paolo, carissimo, noi siamo tra i pochi figli di Dio ai quali il Padre Eterno ha concesso di vedere con i nostri occhi mortali la forma immortale di un Suo Angelo! Vieni, vieni a vedere la bellezza della più pura tra le creazioni del Signore Onnipotente! La manifestazione più perfetta del Suo amore.
Se glielo permetti l’Angelo saprà parlare direttamente al tuo cuore. Ah, che voce celestiale! Egli saprà pulire da ogni incertezza la tua piccola mente d’infedele. Solo così tu e io potremo avere accesso un giorno al Regno dei Cieli!
Paolo, fratello mio, beati coloro che crederanno senza aver visto… ma tu adesso hai visto! Come me adesso sei chiamato a essere testimone della Salvezza! Capisci? Noi, indegni come siamo, imperfetti e miseri, siamo stati scelti… l’intera parrocchia di Santo Spirito è stata scelta… Saremo i capofila di una nuova Genesi! Capisci, Paolo?!»
Don Nicola agitava le braccia come un banditore e sudava e gridava e sputava queste parole galvanizzate dritte in faccia a Paolo, il quale però quasi non lo percepiva e lanciava il suo sguardo preoccupato oltre le spalle del prete. Lì la massa oscura e febbricitante aveva quasi del tutto completato la propria forma incarnata, costituita da un’infinità di gusci neri, zampe e antenne vibranti. I coleotteri che già erano stati inglobati in quelle aberrazioni anatomiche sembravano tanto compressi da formare un’unica massa nera e lucida, compatta come ossidiana.
Paolo si fece scappare un po’ di pena al pensiero di quei poveri insetti, vittime inconsapevoli di questo magnetismo diabolico che da chissà quanto tempo ne governava i movimenti e le intenzioni. Ma questo pensiero servì solo a far crescere in lui la rabbia e il fastidio per tutta quella innaturale situazione. Così, con un gesto stizzito, cacciò sotto il naso di don Nicola il braccio sul quale era avvolta la biscia. Questa, già agitata dalla torma di insetti che vorticava per tutta la cripta, colse al volo l’occasione che il ciaraulo le diede liberandole la testa dalla stretta della sua mano. Don Nicola si ritrovò così a pochi centimetri dal volto gli occhi tondi e gialli del rettile, la testa sagomata e lucida e di colpo l’ampissima bocca spalancata e una sibilante lingua nera biforcuta.
Lo spavento del prete fu talmente grande e la sua fede tutto sommato così piccola, che non ci pensò su un istante. Indietreggiò di qualche passo e quindi se la diede definitivamente a gambe, scomparendo tra le colonne della cripta.

Purtroppo però il trambusto che aveva causato il parroco aveva avuto un effetto indesiderato non di poco conto. Adesso tutti gli scarafaggi, che fino a quel punto avevano ignorato Paolo, interrompendo il proprio vorticare iniziarono a riversarsi nella sua direzione. Già i primi avevano risalito le sue gambe fino alle cosce. Il ciaraulo scalciando e imprecando cercava di avanzare, liberandosi dal maggior numero di insetti possibile. Ma più procedeva verso il demone e più sembrava di immergersi in una grottesca piscina.
Paolo, contraendo fino al parossismo la propria forza di volontà, avvicinò nuovamente la testa della biscia alla bocca schioccandole un bacio in mezzo agli occhi. Quindi le bisbigliò una nuova preghiera incomprensibile e la puntò come un arma contro il colosso ronzante.
Nulla accadde, se non che il mostro scuotendosi lanciò un ruggito di soddisfazione contro il povero Paolo. Ma questi a sua volta, superata ormai la soglia tra terrore e follia, gli rispose con un versaccio animalesco. Più uno sfottò che un vero urlo da battaglia, che tuttavia ottenne l’effetto di lasciare quell’ombra nera interdetta per una frazione di secondo.
L’onda scura di insetti che lo stava inghiottendo, era quasi giunta all’altezza del suo petto, ma il suo gesto inconsulto parve abbassare la marea di qualche centimetro. Ciò gli permise di avanzare un altro po’.
Tuttavia quell’attimo passò e il demone, oramai del tutto incarnato, mosse il primo passo verso quel piccolo uomo armato di biscia.
Già da alcuni minuti gli scarafaggi avevano iniziato a mordere la pelle e la carne di Paolo. L’oscurità gli fu addosso come una compatta onda anomala. Solo il braccio con la voglia di ragno e la mano che stringeva il corpo agitato della serpe emergevano ancora da quella tomba di insetti.

Torna all’indice di questo racconto

12

Ricambio d’aria

All’inizio fu come un fruscìo di foglie e una brezza asciutta che leggerissima si fece largo nell’umida e fetida atmosfera della cripta.
Lentamente il fruscìo lontano divenne il suono di un corso d’acqua e la brezza crebbe in una corrente di vento fresco. Pareva provenire da tutte le direzioni!
Anche i coleotteri sembrarono accorgersi di quel mutamento nell’aria, divergendo per un istante dal proprio percorso.
Dai tunnel, che gli stessi insetti avevano scavato nella pietra, adesso qualcos’altro si stava avvicinando a grande velocità.
Prima ancora dei lunghi corpi sinuosi, ciò che si vide fu una costellazione di scintille gialle baluginare in lontananza dentro il buio delle gallerie.
Un’orda di pupille verticali e rotonde emerse dall’oscurità, seguita da squamose livree variopinte. Erano bisce, biacchi, saettoni, colubri, lucertole, gongili, gechi ma soprattutto un’infinità di velenose vipere. Se Paolo non avesse avuto gli occhi coperti dalla marea di coleotteri, la sua fobia lo avrebbe sicuramente costretto a dare di matto.
Ma il ciaraulo in quel momento lottava per tornare a respirare, sputando fuori gli scarafaggi che cercavano di entrargli in gola.
L’esercito di rettili inizialmente si riversò sopra il tumultuoso tappeto nero, scorrendo come l’olio che scivola sull’acqua senza mescolarsi. Dopodiché, una volta conquistata gran parte della cripta, iniziò un lavoro metodico di annientamento dei coleotteri. Li raccoglievano a mucchi tra le proprie spire e li schiacciavano, facendone schiantare gli esoscheletri neri. I biacchi e i boa più grandi dilatavano al massimo le loro bocche, capaci di contenere all’occorrenza anche un coniglio. Ingurgitavano il maggior numero di insetti, riducendo a vista d’occhio il livello di quella nera piscina.
Intanto dai tunnel il flusso di nuovi soldati striscianti non accennava a rallentare. Fino a quando, in mezzo a quella bolgia di spire, lingue biforcute e denti retrattili, non fece il suo ingresso uno dei rettili striscianti più grandi mai visti da occhi umani.
Il suo corpo era nero come la notte, coperto da grandi squame scintillanti. Il suo peso era tale che fece cedere parte della galleria dalla quale era emerso. Quando la coda doveva ancora terminare di uscire dall’ombra, già il resto del suo corpo aveva coperto quasi l’intero perimetro della grande sala, zigzagando attraverso l’antico colonnato.
La testa di questa nuova spaventosa creatura venne così a trovarsi di fronte all’ombra nera che aveva causato tutto ciò. Il muso rosso sangue e gli occhi gialli del grande rettile fissavano adesso la gibbosa faccia di ossidiana del demone. La furia di quest’ultimo creava un rombo come d’incendio e faceva vibrare il colonnato e le pareti deturpate della cripta.
Mentre la distruzione del suo inerme esercito di coleotteri procedeva con determinazione, solo alcune lucertole e poche bisce – tra le più giovani – erano diventate banchetto per gli scarafaggi.
Ma il grosso dei rettili sembrava non avere nessuna difficoltà nello spappolare migliaia di insetti per ogni secondo che passava. Tanto che in breve arrivarono a lambire anche il corpo del demone vero e proprio.
Quest’ultimo urlava e si agitava, avanzando furioso verso la più grande delle serpi, cogliendone l’atteggiamento sfida. Ma quando la testa di quel colubro abnorme fu alla portata delle sue braccia rocciose, pronte ad abbattersi su di essa con tutta la furia dell’Inferno, la serpe con un guizzo si erse fino a sovrastare il suo avversario. In una contorsione rapida delle sue ciclopiche spire, avvolse il demone tranciandone il tronco in decine di parti, generando una nuova tempesta di insetti.
L’onda d’urto di questa esplosione si trasmise alla massa eterogenea di coleotteri e rettili, scoprendo la parte centrale del pavimento della cripta.

Una volta ingurgitati gli ultimi brani di quella carne nera, l’immensa serpe dal muso di sangue rilassò nuovamente le sue spire e placidamente scivolò tra le colonne portandosi verso l’ingresso della cripta. Là dove stava riemergendo il volto assopito di un uomo dai lunghi capelli grigi.
Le restanti bande di coleotteri sopravvissuti, una volta sciolto il legame infernale che li governava, fuggirono in tutte le direzioni. I buchi nella roccia li inghiottirono fino all’ultimo, lasciando la cripta riempirsi del sibilare vittorioso delle serpi.
L’eco di questo coro si era appena spento che già l’esercito strisciante abbandonava anch’esso il campo di battaglia.
Soltanto lei, la regina di tutti i serpenti, s’attardava nei pressi di quell’uomo che ben conosceva. La biscia non aveva ancora abbandonato il suo avambraccio col sacro marchio. Ma bastò uno sguardo da parte della serpe gigante per farle capire che il suo compito era finito e che poteva lasciare la presa.
Così la piccola biscia, stendendo le membra, serpeggiò tristemente insieme al resto dell’esercito lontano dal corpo senza più vita del ciaraulo. Quindi il colosso insinuò il suo rosso muso sotto la schiena del cadavere e con una delicatezza indicibile se lo lasciò scivolare lungo l’ampio dorso, sollevandolo del tutto da terra.
Come un corteo funebre improvvisato, avanzò insieme ai suoi simili scivolando nei meandri della terra attraverso il più ampio dei passaggi. Il braccio con la voglia a forma di ragno pendeva inerte su di un fianco della serpe colossale, mentre Paolo veniva cullato da quelle scure onde squamose.

Torna all’indice di questo racconto

13

Cosa resta?

Se c’è una cosa che questa terra sa fare, è sicuramente dimenticare.
Dimenticare la propria storia, le battaglie, quelle vinte e quelle perse. Dimenticare i propri morti.
Se pensi che non sia così – perché magari hai già sulla punta della lingua una decina di nomi di morti illustri – sappi che, fossero anche cento o mille i nomi onorati che ricordi, non basterebbero a coprire un’infinitesima parte della schiera di eroi dimenticati, caduti in nome di quest’isola.
Migliaia di generazioni si sono susseguite e milioni di persone senza volto hanno costruito con i propri corpi un argine lungo millenni che separasse il bene dal male, la salvezza dalla perdizione, la pace dalla follìa e dal disordine.
A milioni sono morti affinché a miliardi vivessero le proprie vite ignari di tutta l’oscurità che avrebbe potuto ingoiarli. Ma non lo ha fatto.

Così avvenne che la chiesa di Santo Spirito fu chiusa per dei lavori di messa in sicurezza. L’intero quartiere salì agli onori della cronaca per qualche settimana, proprio a causa di una serie di gravissimi crolli causati, come dichiararono le autorità, da infiltrazioni d’acqua. Questa aveva corroso per secoli la base calcarea sotterranea sulla quale posavano la maggior parte degli edifici del quartiere, compresa la chiesa.
I membri della commissione tecnica usarono il termine “sinkhole”, per indicare quei crateri che nottetempo si spalancarono inghiottendo le case e i loro abitanti.
Ad esempio, della casa della signora Luigina rimasero in piedi soltanto le mura perimetrali, tutto il resto venne risucchiato in poche ore da una profondissima voragine scavata dall’acqua. Non fu possibile recuperare il corpo della donna, per quanto una squadra di speleologi professionisti fosse stata mandata da Catania.
La signora Luigina purtroppo non fu l’unica a venire risucchiata dalla terra quella notte. A cedere furono le fondamenta di dodici edifici, per un totale di ventisette dispersi.
Gli interventi per impedire il crollo di ciò che restava ancora in piedi del quartiere di Santo Spirito si protrassero per dei mesi.
Diverso fu per gli interventi che concernono la chiesa. Anche se l’edificio in sé non aveva subìto crolli o lesioni, l’erosione anomala subita dai locali sotterranei spinse la Curia di Agrigento a deciderne la chiusura definitiva.
Laggiù, infatti, gli smottamenti avevano devastato le pareti della cripta e spinto una gran quantità di esemplari della fauna locale a morire intrappolati in quegli antichi locali, pur di sfuggire agli allagamenti delle loro tane.
Il giovane parroco, don Nicola, si occupò personalmente del recupero e dello smaltimento delle carcasse degli animali, mostrando grande forza di volontà ma anche grande amore per la sua martoriata parrocchia. Questo gesto, lodato dai fedeli, fece storcere non poco il naso ai biologi e agli entomologi accorsi alla notizia dell’anomalia e rimasti a bocca asciutta.
Egli continuò per settimane a dir messa e a somministrare i sacramenti all’interno dei locali di una vecchia scuola in disuso non lontano dalla chiesa, che il sindaco fece approntare per venire incontro ai bisogni dei fedeli.
Ma ben presto il sacerdote fu richiamato ad Agrigento e riassegnato altrove. I parrocchiani tornarono a dividersi tra le altre parrocchie del paese.

La chiesa di Santo Spirito, sigillata da allora e abbandonata all’incuria, in pochi anni invecchiò come non aveva fatto nei precedenti tre secoli. Il soffitto si arrese alla pioggia e le navate rimasero esposte agli agenti atmosferici. Tutt’ora poche transenne e dei puntelli arrugginiti segnalano l’instabilità della struttura. Passando per il piazzale di Santo Spirito puoi vedere il cielo azzurro attraverso le vetrate della facciata della vecchia chiesa in tufo e i piccioni svolazzare sugli altari coperti di calcinacci.
Per questo motivo chi ancora abita il quartiere evita di passare nei pressi della vecchia chiesa. Il silenzio regna sullo spiazzo, niente traffico, niente eco di passi, nessuna campana rintocca le ore.
Solo su una panca un gatto dal manto maculato dorme, raggomitolato e scaldato dai raggi del sole. Sulla medaglietta un serpente che si morde la coda ma nessun nome. Forse sogna di un amico perduto.

Mentre la sera, quando il Sole cade dietro le colline, si vedono sgusciare fuori dalle molte case abbandonate tanti piccoli coleotteri neri e lucidi. Forse gli ultimi veri abitanti del quartiere di Santo Spirito.

Fine | Torna all’indice di questo racconto

oppure

esplora le altre storie…

Se desideri supportarmi in questo viaggio, leggi i miei racconti, scrivimi cosa ne pensi, seguimi sui social network e, se ti va...

Contattami

Puoi sempre contattarmi attraverso i miei profili sui social network (trovi le icone in fondo a questa pagina)

o in alternativa

manda una e-mail all'indirizzo:

scrivimi@calogerorotolo.it