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Minivan

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INDICE

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1

Avevo appena compiuto cinque anni. Era il 1979, era estate. Ero figlio unico e mio padre e mia madre, ancora giovanissimi, si dedicavano a me con tutto il cuore. Mio padre faceva il praticante in uno studio di avvocati e mia madre aveva momentaneamente chiuso il suo studio di fotografia per via della maternità. Avevo ormai cinque anni ma lei non aveva ancora ricominciato a lavorare, non riusciva a staccarsi da me. Inoltre i soldi non mancavano. La mia vita passava dolcemente dal mattino fino a sera. Una vita fatta di torte, giocattoli, solletico e gitarelle in famiglia.
Un pomeriggio in spiaggia, sul tardi, quando la folla sparisce, ricordo che scorrazzavo sul bagnasciuga in cerca di conchiglie e sassi colorati, sotto gli occhi divertiti dei miei genitori. La mamma aveva i capelli legati da un foulard arancione con una trama di fiori bianchi. Mi sorrideva. Papà, anche lui mi sorrideva, ma con una mano sempre aperta pronta a salvarmi da qualche inciampo. Nonostante tutto, i loro volti li ricordo bene.
Era il tramonto, dicevo, e prima che il Sole calasse del tutto i miei iniziarono a raccogliere la stuoia e gli asciugamani, nonché i miei giocattoli. Ero contrariato di abbandonare così presto il mare, ma sapevo che sulla strada del ritorno mi avrebbero comprato una pizza – me l’avevano promesso. Così, corsi avanti verso il parcheggio. Sentivo mio padre corrermi dietro, urlandomi di aspettarli. Ma io volevo arrivare per primo alla macchina.
Ma alla macchina non ci arrivai mai. Nonostante il parcheggio fosse ormai quasi del tutto vuoto, alcune auto in sosta mi nascosero per pochi istanti dalla vista dei miei genitori. Una di quelle auto era un minivan. E dal minivan scese di corsa una donna, che mi afferrò, mi caricò sul sedile posteriore e mi portò via.

Piansi per dei giorni. Non so nemmeno io quanti. So che viaggiammo su quel furgone per più di una settimana. Attraversammo tutto il paese, da Sud a Nord. Arrivammo a destinazione che io, sfinito dal pianto, ero sprofondato nel sonno più nero che abbia mai avuto. Quando mi svegliai, il mattino seguente, ero pulito. E, come me, tutto quello che mi circondava profumava di nuovo. Mi trovavo in una camera piena di giocattoli e peluches. Il lettino sul quale avevo dormito era più grande del mio, così come il pigiama che indossavo.
La donna, la stessa che mi aveva strappato ai miei genitori, stava lì in un angolo a fissarmi. Era magra e alta, con dei capelli lisci e biondi. Era seduta su di una poltroncina per bambini, con le lunghe gambe piegate da un lato, quasi in ginocchio. Mi guardava e sorrideva. Ma aveva gli occhi rossi di chi ha pianto, e anche un bambino di cinque anni avrebbe capito la sua tristezza. Mi disse di chiamarsi Veronica e che sarebbe stata la mia nuova mamma per un po’. E che presto sarebbero venuti a trovarci anche la mia vera mamma e il mio vero papà.
Ma, mentre gli anni passavano, ogni volta che chiedevo dei miei veri genitori, venivo rimproverato e punito come chi dice una bugia.
All’età di dieci anni li avevo già dimenticati e avevo imparato a voler bene alla mia nuova e unica madre, Veronica. E lei me ne voleva davvero, credo che alla fine avesse convinto anche sé stessa della sincerità delle sue bugie.

Con Veronica ho vissuto per venti anni. A venticinque mi ero trovato un lavoro come rappresentante di prodotti per le aziende agricole, che mi faceva viaggiare un po’ nella provincia e che mi aveva dato la possibilità di prendere in affitto un monolocale in centro. Litigammo non poco per questa mia decisione ma, come avrebbe fatto ogni madre, alla fine si rassegnò all’idea. Il patto era che ogni domenica sarei tornato a pranzare con lei a casa.
Il lavoro mi prese molto, soprattutto quando venni promosso a responsabile regionale. Incominciai a viaggiare per tutta la regione, pernottando anche di tanto in tanto in qualche affittacamere di cittadine che non avevo mai nemmeno sentite nominare. La paga era più che buona e mi restava comunque molto tempo libero il fine settimana. In questo modo potevo anche coltivare la mia vera passione: la fotografia. Portavo con me, anche a lavoro, una Nikon degli anni ‘60 e, visitando tutti quei posti lontani da casa, riuscivo a consumare un rullino in un solo pomeriggio. Così il fine settimana mi serviva per sviluppare tutte quelle pellicole.
Fu proprio ad un corso serale di fotografia che conobbi Anna. Me ne innamorai subito, ma ci misi un anno a conquistarla. Durò poco, davvero poco, ma dopo di lei – anche se ho avuto altre storie – nessun’altra mi ha fatto star bene e male in quel modo.

Stavo programmando una lunga vacanza proprio con lei quando dal lavoro mi chiamarono con urgenza. Erano stati richiesti dall’ufficio sanitario di zona i certificati medici e la completa storia clinica di ciascun dipendente della ditta, compreso il mio. Avevamo poche ore per consegnare tutto alla sede provinciale.
Così chiamai mia madre per chiederle il numero di telefono del nostro medico di famiglia. Erano anni che non mi beccavo neanche un raffreddore, quindi erano anni che non facevo un controllo. Avevo dimenticato pure il nome e il viso di quell’uomo che quand’ero ragazzino veniva in casa a visitarmi e a prescrivermi medicine tutte le volte che stavo male. Era un amico di famiglia. Ma come si chiamava? Aveva di certo lui la mia cartella clinica, la mia storia.

Inutile dire che non portai nessun certificato all’ufficio sanitario. Perché non c’erano certificati da portare. Non c’erano documenti di nessun tipo, né medico né altro.
Quella stessa sera mia madre mi raccontò tutto. Tra le lacrime e i singhiozzi cercò anche di uccidersi davanti ai miei occhi con un coltello dalla cucina. La bloccai che già si era ferita a un braccio. La medicai, le diedi uno dei suoi sonniferi e la misi a letto. Io rimasi in casa con lei, passando la notte nella mia vecchia camera. Ma fu una notte senza sonno. Le cose che mi aveva detto piangendo mi avevano fatto crollare le pareti addosso. Ero sepolto da tonnellate di menzogne e falsità, di sentimenti sinceri ma deviati, di cecità, di paure. Tutto si era sgretolato dentro e attorno a me. La mia vita, la mia vera vita, mi era stata rubata, nascosta. E io cos’ero adesso? Se non una menzogna, un inganno vivente?

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2

Vissi ancora un mese in quella città, e per un mese continuai a chiamare quella donna mamma. Per Veronica quella parola era diventata come uno schiaffo. Mentire per tanti anni le aveva fatto scordare l’acido corrosivo della verità. E fino a quando io l’ho creduta vera quella bugia, era stata vera anche per lei. Mentre adesso che io sapevo la verità, la sua bugia era tornata ad essere tale anche per lei. Non saprei dire chi ne soffrisse di più.
Mi feci raccontare tutto, ogni minimo particolare. Mi disse di come la solitudine e il dolore per la morte del marito l’avevano portata alla follia, di come i genitori l’avevano ripudiata dopo il suo tentativo di togliersi la vita – erano persone religiosissime – e di quando, senza sapere il perché, s’era ritrovata sul minivan in autostrada, diretta chissà dove.
Mi confessò che io non ero stato nemmeno il primo tentativo. C’era stato un altro bambino pochi giorni prima, ma era stata vista dai genitori e inseguita. Aveva dovuto lasciar andare il piccolo e scappare.

Raccolsi dal suo racconto tutti i dettagli che potevo, ogni cosa riguardasse la mia vera storia, le mie origini, il mio vero paese, i miei veri genitori. Ma non le feci mai nessuna domanda, fu lei a raccontarmi tutto senza farselo chiedere. Si sforzava con tutta sé stessa di darmi il più possibile; a questo punto era diventato importantissimo per lei riuscire a tirare fuori ciascun particolare, ogni aspetto di quella verità che aveva cercato invano di seppellire dentro di sé per venticinque anni.

Ricordava ancora il nome di quel paesino di mare, ma non sapeva dirmi se i miei genitori fossero gente del luogo o solo turisti di passaggio. Mi raccontò quella giornata minuto dopo minuto. E, ascoltandola, mi sembrava di vederla, acquattata in quel minivan per delle ore, sudando e tremando. Era una vittima tanto quanto lo ero stato io. Niente di più lontano da un predatore, da un ladro o da un rapitore. Aveva rubato a quella coppia il loro unico figlio, ma per lei era stato un gesto necessario per la sopravvivenza. Nella sua anima c’era stato un terremoto, e le macerie e la desolazione che si trovava dentro le avevano chiesto a gran voce una goccia di vita, per ricostruire quel mondo distrutto. Per rifiorire.
Ammise di non aver avuto il coraggio di guardarli in faccia nemmeno per un istante, nonostante fosse rimasta ad osservarli da lontano per tutto il pomeriggio. Il Sole al tramonto li aveva trasformati in piccole sagome scure di poco contrasto sulla sabbia più chiara di quella spiaggia.
Ad un certo punto disse che per lei era stato come un incubo vissuto dentro ad un bellissimo sogno, ma il sogno di qualcun altro. Mi colpì molto questa frase perché mi fece rendere conto di quante volte avevo davvero sognato quella scena per me senza senso: la spiaggia, il tramonto, il luccichìo cristallino delle onde, i sorrisi prima e il pianto poi. Era proprio un incubo dentro un sogno e solo adesso scoprivo invece quanto fosse stato reale quell’incubo.

Nell’ultima settimana che vissi accanto a Veronica, non scambiammo nemmeno una parola. Io non sapevo davvero cosa dirle e lei aveva paura anche solo di dirmi un’altra volta quanto mi volesse bene. Quei giorni sembrarono eterni, un limbo fatto di stanca quotidianità. La mia vita lì aveva perso ogni significato, come una gomma masticata troppo a lungo. Avrei proprio voluto sputar via ogni cosa, ficcarmi due dita in gola e vomitare fuori tutta la confusione e la solitudine che mi erano cresciuti dentro come gramigna. Così, dopo essermi licenziato, presi l’auto e partii.
All’inizio mi diressi verso il mare. Presi una camera in affitto per due giorni in una pensione. Passai quei due giorni seduto sulla piccola veranda che si affacciava sulla spiaggia. A mala pena mangiai qualcosa.
La sera del secondo giorno ero ubriaco e intontito dalla fame, mi trascinai fuori dalla pensione in cerca di una tavola calda o di un ristorante. Era estate e l’aria fresca della strada mi svegliò un poco. E mentre mi chiedevo cosa avrei dovuto fare, mi ritrovai davanti agli occhi l’insegna di una pizzeria. Entrai e mangiai senza nemmeno prendere fiato. Una volta che fui di nuovo in strada feci la mia scelta. Corsi alla pensione, pagai il conto, raccattai la mia roba e saltai in auto.
Mi ci vollero più di due giorni di viaggio.

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3

Al poliziotto dissi di essere un ricercatore universitario e che mi interessavano tutti i casi di rapimento di minori avvenuti nella provincia intorno agli anni ‘70 e ‘80. Incredibilmente si bevve tutta la storia e mi accompagnò di persona all’archivio. E fu un bene, perché il suo collega dell’archivio fu un po’ più restìo nell’aiutarmi. Il mio accompagnatore riuscì a convincerlo con un paio di battute che io non capii.
I rapimenti denunciati in quella zona erano un’infinità, e in quegli anni in particolare era quasi normale amministrazione. Ma per mia fortuna i rapimenti di bambini non erano stati più di una decina – almeno quelli registrati in quell’archivio.
Alla polizia non dissi che in realtà mi interessavano soltanto i rapimenti avvenuti nell’estate del 1979. E tra tutte quelle denuncie di rapimento, soltanto una si riferiva a quell’anno.

Non saprei dire perché mentii sulla mia vera storia. Forse era per difendere Veronica – nonostante tutto non riuscivo a odiarla. Oppure il motivo era che mi sentivo quasi complice di quel rapimento. Vivere così tanti anni insieme alla mia sequestratrice, volerle bene, chiamarla mamma, era questa la colpa per cui mi ero condannato da solo.

Aveva sporto la denuncia il padre del bambino rapito. Il nome e il cognome del bambino non mi dissero nulla, mentre il nome del padre mi rimbombò in testa. Ernesto.
C’era nella copia della denuncia un indirizzo scritto a penna. Alla prima edicola comprai una cartina della città, spacciandomi per turista. L’edicolante, in vena di confidenze, ammise che quegli scavi archeologici, anche se di nessun valore scientifico, avevano comunque portato una boccata d’aria all’economia del paese. Qualche turista, qualche professore, qualche giornalista e il nome del paese ne aveva guadagnato.
Io tagliai corto, ringraziai per la cartina e gli chiesi se per caso conosceva quell’Ernesto. Ci pensò a lungo, ma quel nome non gli diceva niente. Mi spiegò allora che prima che gli scavi portassero qualche soldo in città, moltissime famiglie erano state costrette a emigrare. C’erano state delle annate pessime, per via del clima e anche per la criminalità che non aveva lasciato spazio di manovra né ai contadini né agli imprenditori.

L’indirizzo che mi aveva dato la polizia mi portò ad una vecchia palazzina di periferia. E sul citofono il cognome era ancora quello. Ma quando trovai il coraggio di suonare, nessuno mi rispose.
Ero perso. Lontano da qualsiasi posto fosse casa mia, senza una famiglia degna di questo nome, senza un lavoro, senza più nemmeno uno scopo folle come quello di ritrovare i miei veri genitori. Rimasi davanti quel portone per diversi minuti, fissando ad una ad una le lettere di quel nome.
Quando feci per voltarmi e andar via, sentii il portone di ferro cigolare alle mie spalle e aprirsi. Mi voltai di scatto, spaventato, come un ladro.
Una vecchina affacciò la testa coperta da uno scialle. Era vestita di nero e sul suo viso scheletrico spiccavano due enormi occhi da bambina. Non appena mi vide si illuminò in un sorriso. Se le sue gambe malate gliel’avessero permesso, credo che mi sarebbe corsa incontro. Agitò le braccia per la contentezza e si mise a parlarmi come se mi conoscesse: «Ma quand’è tornato? Com’è bello rivederla, mi fa proprio piacere. Sa, qui siamo rimasti in pochi e il palazzo sembra morto. E la signora è venuta anche lei?»
La fissai indeciso su cosa dirle. Mi chiesi se fosse cieca o pazza, chi credeva che io fossi?
«No» – le dissi – «la signora non c’è, sono venuto da solo.»
Sembrò molto dispiaciuta e un velo di preoccupazione le incupì il viso spegnendole il sorriso. Tenendomi la mano mi chiese sottovoce: «State ancora insieme, sì?» Le dissi di sì e subito mi pose un altra domanda che mi fece capire tutto. «E il bambino? L’avete mai trovato?» Era serissima, gli occhi le luccicavano e le labbra le tremavano. Le dissi di no con la testa e mi prese un nodo alla gola.
L’anziana signora mi strinse la mano più forte, mentre cercava qualcosa da dire. Poi si illuminò di nuovo e mi chiese se avevo le chiavi o se mi servivano le sue. Sì, mi servivano le sue chiavi, le dissi. Fu contenta di potermi essere d’aiuto e mi chiese di accompagnarla in casa a prenderle.
Nella penombra dell’ingresso del suo appartamento la vidi cercare in fondo a una cassettiera mentre, parlando tra sé e sé, faceva mente locale. Emerse dall’ultimo cassetto con un mazzo di chiavi in una mano e un mucchio di fogli nell’altra. «Le avevo conservate insieme ai volantini che mi aveva dato. Finché mi hanno retto le gambe, sono andata in giro a riattaccarli ogni volta che venivano strappati. Ma è dall’anno scorso che non posso più uscire di casa. Solo quando c’è bel tempo riesco ad arrivare all’incrocio e a tornare indietro, povera me. Mi deve scusare, signor Ernesto.»
Mi chiamò con quel nome e mi diede in mano le chiavi e i volantini. Le chiavi dovevano essere dell’appartamento dei miei genitori. Mentre sui fogli di carta era stampato il nome del bambino rapito e una foto in bianco e nero, deformata da una vecchia fotocopiatrice. A mala pena mi riconobbi.
«Li prenda lei, che se magari rimane qualche giorno, può attaccarli di nuovo. No?» Aspettò qualche istante una risposta da parte mia, ma poi aggiunse: «Non bisogna mai perdere la speranza.»

La ringraziai e la salutai dicendole che sarei rimasto in paese per qualche tempo. Poi salii al piano di sopra e aprii la porta di quella che doveva essere stata casa mia un tempo. Era ancora ammobiliata, ma piena di polvere e ragnatele. C’era anche un vetro rotto ad una delle finestre dell’ingresso. Gli scaffali erano vuoti, così come i cassetti. Il letto matrimoniale era privo di lenzuola, ma c’erano due cuscini su di una sedia in un angolo della stanza. Invece quella che doveva essere la cameretta del bambino era completamente vuota.
Entrai in cucina e mi sedetti sull’unica sedia che c’era. Appoggiai le chiavi e i volantini sul tavolo e mi persi nella trama fiorata delle piastrelle che rivestivano l’angolo cottura. Rimasi tutto il pomeriggio in quella stanza. Poi, quando fuori era ormai buio, decisi di scendere a prendere la mia roba dalla macchina per passare la notte lì, in quella casa.
Una volta in strada, però, mi accorsi di avere in mano uno di quei volantini col mio viso da bambino stampato sopra. Mi guardai attorno e vidi un chiodo arrugginito che sporgeva dal muro del palazzo, accanto al portone. Dio solo sa perché, ma mi avvicinai al chiodo e ci appesi il volantino. Quindi lo lessi fino in fondo.
L’ultima riga diceva: “Giuseppe, mamma Lina e papà Ernesto non smetteranno mai di cercarti.”

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