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Shōji

Tempo di lettura: 60 minuti.

Nel fiume scorre,
col colore del tempo,
un cielo terso.

INDICE

Cap. 1Cap. 2Cap. 3Cap. 4Cap. 5Cap. 6Cap. 7Cap. 8Cap. 9Cap. 10Cap. 11Cap. 12Cap. 13Cap. 14Cap. 15Cap. 16Cap. 17Cap. 18


1

Nel cuore della più antica foresta del Giappone, nella regione del Kansai, tra betulle e aceri, nel sempiterno autunno dalle fiammeggianti foglie rosse e gialle, lì un vecchio uomo saggio aveva disposto la propria dimora.
Nella solitudine di quei sentieri erbosi, protetto da infiniti greggi d’alberi molto più antichi del suo più antico ricordo, l’uomo, amava passeggiare e meditare sull’universo intero.
I suoi pensieri correvano attraverso ogni cosa e dentro la sostanza di ogni essere vivente, del suo tempo o di epoche lontane dalla sua, le cui tracce erano scolpite oramai solo nella roccia e abbracciate avidamente dai licheni. Fiori e insetti erano il suo auditorio silente e parevano a volte ansiosi di udire ancora una volta quelle verità ch’essi forse hanno sempre conosciuto. Così come sempre hanno veduto uomini saggi esiliarsi dal mondo dell’Uomo per ricongiungersi ancora una volta con l’Universo.
Egli aveva raccolto molti frutti grazie al suo laborioso esilio ma ancora, come raccontava spesso ai colibrì che lo seguivano nel bosco, sentiva forte un’incertezza nei suoi passi verso l’illuminazione.
La sua umile casa non era più grande o più decorata di una semplice sala da tè ed era pressoché vacante, se non fosse stato per una stuoia logora e alcune brocche di terra pressata dalle quali occhieggiavano colorati mazzetti di minuscoli fiori di campo. Dall’esterno, invece, l’austerità degli interni era contraddetta dalla somiglianza a un ricco tempio, una pagoda in legno chiaro, semplice ma nobile nelle linee. Soltanto le piccole dimensioni non contrastavano in un’osservazione completa della dimora del vecchio saggio.
Non lontano, sotto i rami di quella fitta boscaglia, correva un giovane torrente di chiara e fresca acqua dolce. Nel suo lungo viaggio, che andava dalla testa del monte fino alle sponde del mare, il suo impeto aveva scavato il percorso tanto da renderne difficile il guado, specie per un vecchio stanco. Ma fortuna volle che, in qualche era passata, un egregio architetto avesse voluto porvi rimedio con un ponticello. E che lo stesso architetto aveva desiderato che questo ponte non disturbasse la vista di quella natura così perfetta e primordiale.
Il vecchio saggio aveva imparato a conoscere quel fiume e il passo di legno che lo sormontava. Conosceva di quel vecchio ponte ogni trave, ogni scricchiolio e gli erano familiari tutti gli acciacchi dovuti all’umidità. Erano come vecchi amici, il saggio e il breve ponte, amici che si confidano i propri affanni quotidiani.
E fu proprio lungo quel ponte, mentre lo attraversava, che il vecchio saggio rivide, per la prima volta dopo molti anni, un viso umano.

Alla sua veneranda età egli aveva imparato ad ammansire le emozioni tutte, come la collera o lo stupore, ma quella volta si sorprese e la sorpresa fu tale da farlo barcollare. Così, afferratosi al legno ossuto del ponte, si chiese quale fosse stata la causa di questa tracimante emozione. Era già accaduto diverse volte di incrociare il passo con qualche viandante sperduto, anche se ciò non si verificava più da tempo. Poteva essere questa la causa del suo insolito stupore? Il saggio si rispose di no.
L’uomo che gli veniva incontro aveva però un che di insolito, questo era certo. Nonostante lo stupore il vecchio s’era messo a studiare i lineamenti dello straniero, in cerca di qualcosa, forse un ricordo, ma facendo ciò la sorpresa crebbe in lui. Il volto dello straniero rivelava molte cose e molte ne celava. Quelle forme, quelle linee del viso, portavano lontano dall’arcipelago, fin sulla terra ferma, nel cuore del continente: erano segni del nord. Ma il saggio non potè dirsene certo, poiché quell’uomo indossava un manto verde scuro, che gli terminava sul capo a mo’ di cappuccio.
I lembi di quel manto giocavano con gli occhi stanchi del povero vecchio e parevano perdere a tratti i propri contorni sullo sfondo della foresta, verde in quel punto vicino al fiume. Solo il passo deciso del forestiero mostrava che il tempo non s’era fermato. Infatti, in breve i due uomini si trovarono di fronte l’uno all’altro, e con un gesto snello del braccio lo sconosciuto sostenne il vecchio e lo riportò stabile sulle proprie gambe.
«Maestro, sei lontano dalla tua casa!»
Era stato l’uomo senza nome a parlare, e le sue parole avevano scosso il petto del saggio e tutto il ponte, tanto era grave il suono di quella voce.
«Voi conoscete me, e dite ciò, ma sembrate voi ad aver attraversato più terre. Ditemi, vi conosco o v’ho conosciuto in passato? La memoria dei vecchi è un fanciullo bizzarro che ama lo scherzo!» – disse questo e sorrise, e si compiacque di veder sorridere anche lo straniero.
«Io ti conosco, tu conosci me come pochi prima di te, ed è questo che voglio premiare.» – l’uomo parlava lentamente, senza fretta, ma anche con naturalezza, senza studiare le parole. La sua conoscenza della lingua contrastava col suo viso e confondeva le sue origini.
«Lo stesso dono è stato ricevuto da altre mani, degne di tanto onore, ma incerte, troppo incerte.» – qui lo sguardo dell’uomo s’era addentrato nel buio di amari ricordi – «Non titubare, amico mio, il passo è segnato, e non cercare nelle stelle ciò che in realtà dorme nel tuo spirito e nel tuo cuore!»
Nel pronunciare queste parole il viso dello straniero s’era fatto più dolce, tanto che il vecchio non si stupì nel vedere l’uomo alzare il braccio sinistro in sua direzione.
Con due dita lo straniero puntò il petto del saggio confuso e lo pressò senza sforzo, ma fino a provocargli dolore. Bruciavano quelle dita e bruciava tutto il suo petto, il dolore crebbe e il vecchio perdette i sensi.

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2

Al risveglio le prime sensazioni che il vecchio avvertì vennero dalle assi umide del ponticello sulle quali poggiava il suo viso, aveva una guancia intorpidita. Rialzatosi da terra, disse a se stesso: «Sei vecchio oramai. Malori improvvisi come questo non dovrebbero meravigliarti affatto. Anzi, dovresti ringraziare il Padre Tempo per la sua indulgenza verso i tuoi molti anni, mio sciocco amico!» – scosse le spalle e curvo tornò sui suoi passi, verso la casupola nella foresta.
Dell’incontro con il misterioso viandante non fece più parola con se stesso, lo ignorò come fosse stato il sintomo più stravagante della propria vecchiaia.
La notte cadde in silenzio e svelta come mai, forse proprio perché molto tempo aveva egli trascorso privo di sensi. In ogni caso non si buttò giù di spirito, la sua vita aveva assunto, lì nella foresta, ritmi tanto blandi, da non dare molta importanza a una giornata trascorsa così, come una goccia di pioggia che non ha bagnato nessuno.
Dormì, come era suo solito, poche ore, gran parte delle quali trascorse insieme ad antichi maestri, che in tempi immemorabili avevano raggiunto l’illuminazione dello spirito. In loro compagnia il vecchio approfondiva molte questioni riguardanti lo spirito o la natura, apprendeva la storia antica e i suoi misteri e percorreva, invisibile ai non dormienti, le strade del mondo.
Vide quella notte un ponte di pietra stendersi su di un fiume immenso, una torre su di un lato e infinite luci accese in fila su entrambe le sponde. Le forme delle costruzioni parlavano di paesi lontani dalla sua patria e di culture non congiungibili con leggerezza a quella della sua gente. La sua gente… poteva ancora egli parlare della sua gente? O ne aveva perso il diritto lungo gli anni solitari passati nella foresta? Tale pensiero lo fece allontanare dai saggi e lo riportò a galla, nel mondo della veglia.
Schiudendo gli occhi, s’incuriosì nel vedere già i primi chiarori dell’alba.
«Lo scorrere del tempo ti sta mostrando la sua vera faccia infine, quella mutevole e capricciosa. Di cosa ti stupisci? La conoscenza della verità passa anche da questa strada, o no?» – sorrise a se stesso e alla propria ingenuità.
Preparò dell’acqua in una pentolina di metallo e la pose su di una piccola brace che scoppiettava dall’angolo della stanza. Dopo un po’ lasciò cadere nel contenitore alcune foglie scure e dei minuscoli fiorellini chiari. Ne apprezzò come sempre il profumo e bevve sereno e senza pensiero alcuno. Appena dietro l’umile costruzione, un piccolo laghetto trasparente specchiava incerto i raggi del sole. Il vecchio sciacquò la ciotola di legno, con la quale aveva bevuto l’infuso, proprio nelle acque di quello stagno, e la pose ad asciugare su di una mensola sotto la breve tettoia del portico.
Dopodichè, stese una piccola stuoia quadra nella fresca penombra d’un salice, nei pressi dell’acqua. Incrociò le gambe senza fatica, nell’antica posizione del loto, e incominciò la sua meditazione.
Nella quiete dello spirito lo spazio intero perde forma e le strutture della mente si dissolvono come fa il fumo d’una candela. Il silenzio regna e canta, melodia perfetta suonata dall’Universo. Anche il tempo, essendo un riflesso della coscienza di sé, acquista ritmi imprevedibili e, a volte, capita che si riposi anch’esso. Quiete nella quiete, questo era il saggio.
Avvenne però che, come aveva vacillato il suo corpo appena il giorno prima, adesso fosse la sua mente a intralciare quella quiete. In quel silenzio assoluto, nell’interiore calma più completa, tutt’ad un tratto… un pensiero.
Era stato un lieve dolore al petto a distrarlo dal suo meditare. Mai era successo nulla di simile, mai e poi mai. Fu presto lontano dal silenzio eterno e dalla quiete interiore, era addirittura irritato.
Subito corse a rimproverarsi: «Non sei più un ragazzino avvezzo ai capricci, vecchio! Il silenzio e la quiete sono la via, non la rabbia, né la frustrazione! Né tanto meno la vergogna. Sì, è vero che hai vacillato, prima nel corpo e poi nella mente, ma puoi solo ricominciare da capo. Il silenzio è la parola dell’universo e se l’ascolti esso ti svelerà ogni cosa. Questo lo sai tu stesso, sin da quando sei venuto qui. Ricordi? Avevi…»
A lungo il vecchio scavò tra i propri ricordi. Inizialmente come uno scoiattolo, attento ma paziente. Ma la ricerca si svelava infruttuosa, e presto si sentì braccato dall’oblio.
Del vecchio saggio rimaneva adesso solo un animale spaventato.

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3

L’autunno e l’inverno si rincorsero per settimane, alternandosi senza che si potesse pensare «è arrivato l’inverno» oppure «ormai l’autunno è passato». Così, la Natura aveva gettato l’ancora e s’era fermata a galleggiare sempre sullo stesso punto del tempo, ignorandone l’inarrestabile corrente.
Le giornate, invece, si scioglievano veloci senza lasciare traccia alcuna, così come fa un fiocco di neve che ha sbagliato stagione. Si vedeva il Sole alzarsi di buon mattino e coricarsi molto presto, svelto nel cielo come fosse inseguito da una bestia selvatica.
Per il vecchio saggio, attento osservatore, fu come vivere un lungo e tormentato sogno, privo di eventi orribili, ma non per questo meno angoscioso di un qualsiasi incubo. Egli, che traeva la propria forza d’animo dagli innumerevoli insegnamenti della Natura, non riusciva a comprendere queste manifestazioni, né a interpretarle in nessun modo.
Avvenne che il cielo azzurro mandò giù la pioggia, e che il vento soffiasse imperterrito per giorni senza scomporre nemmeno una nuvola, e il fulmine seguì il tuono, e l’eco del tuono danzò per ore nell’aria senza svanire né affievolirsi.
Un giorno, il vento e la pioggia sferzarono rabbiosi il bosco e la loro voce si alzò tanto che il vecchio non potè far altro che rimanere in casa. Gli spifferi, che filtravano dalle fessure delle pareti di legno, spensero più volte la debole fiamma dell’unica candela che salvava dal buio il saggio. A fatica egli ignorò il frastuono dovuto alla furia degli elementi, ma infine fu raggiunto dalla quiete.
Stava al buio, illuminato in certi istanti solo dal bagliore di un fulmine lontano. Il suo silenzio era circondato dalle urla del vento, ma questo non importava più.
Adesso il suo spirito era sulla cima del monte, nei pressi della sorgente del fiume. Sentiva l’odore del ghiacciaio e il rumore delle crepe che vi si aprivano per far sgorgare l’acqua. Sentì l’acqua scorrere tra le rocce ed essere assorbita dalla terra, dalle radici degli arbusti e degli alberi. Sentì quella vita liquida gonfiare i frutti sui rami e sentì anche il sapore di ognuno di quei frutti, misto al canto di un passerotto che se ne nutriva.
Era lontano dal proprio corpo, dalla propria fatica, dai dubbi di quel giorno sul ponte. Adesso volava insieme a quel passerotto, e insieme a esso lisciava il petto del cielo e da lì in picchiata verso i boschi. Tra i rami tutto era in moto. La vita della foresta ondeggiava come fa il mare sotto il libeccio. Animali, piante e luce giocavano insieme in un intarsio di forme e di suoni. Ogni cosa viveva in funzione di tutte le altre e il tutto esisteva grazie a ognuna di quelle forme, a ognuno di quei suoni.
E quel vecchio saggio era lì.
Il passerotto continuò il proprio giocoso viaggiare e si fece strada tra la boscaglia fino a una radura che circondava uno specchio d’acqua placida. Pareva proprio un lembo di cielo vitreo gocciolato in quel luogo segreto.
Fu lì che avvenne di nuovo. Mentre un ramo di ciliegio dava ristoro allo stanco passerotto, lo spirito del vecchio, che fin lì l’aveva seguito silenzioso, ebbe un nuovo fremito. Il vecchio adesso vedeva soltanto lei, colei che increspava quell’acqua cristallina strofinando poveri stracci, lavandoli con fare sapiente.
Indossava una veste dai colori poveri ma ben tenuta, anche se non nascondeva affatto i segni del tempo. Aveva gli ampi lembi delle maniche cinte da un laccio, di modo che fossero fissate all’altezza delle spalle, lasciando le bianche braccia scoperte e libere di lavorare. Poggiava sulle ginocchia e, leggermente china in avanti, sfregava con impegno quegli stracci sul dorso piatto e obliquo di una roccia immersa per metà nelle acque del lago. Anche i capelli portava raccolti, sulla nuca. Soltanto una ciocca nerissima le scendeva su di una guancia, coprendole a momenti parte del viso.
Il vecchio adesso la fissava smarrito dalla sponda opposta di quello specchio d’acqua, chiedendosi se veramente egli fosse ancora nella propria capanna immerso nella meditazione.
Chi era costei che turbava quel mondo di quiete? E allo stesso tempo, cos’era che impediva a costei di stonare in quel coro di perfezione? Risposte non ne vennero.
Quando ella ebbe finito il proprio lavoro, stese i panni umidi sulle due stuoie che aveva adagiato sull’erba a qualche passo dalla riva. Ad un certo punto, asciugatasi la fronte con un lembo della veste e scoprendo quindi il viso, si scostò dalla seria espressione che l’aveva accompagnata durante tutto il proprio lavoro e sorrise… al vecchio.
«Mi hai trovata anche qui infine?»
Il vecchio s’accorgeva solo adesso di essere in piedi presso di lei sulla riva che fino a qualche istante prima egli stava osservando da lontano. Fu subito preda della confusione e non osò nemmeno rispondere a quella nuova abitante delle proprie visioni.
«Sai quanto mi imbarazza quando tiri fuori quello sguardo incantato. Non me lo merito!» – ella parlò ancora e, detto ciò, s’aprì in un ampio sorriso e corse incontro all’uomo. L’avvolse in un abbraccio, pulito e innocente come quello di una bambina.
A questo punto lo stupore del povero vecchio non aveva confini e nella confusione egli d’istinto alzò lentamente le braccia, come per rispondere all’abbraccio. Ma non lo fece, una nuova rivelazione lo interruppe. Le proprie braccia. Quelle braccia non erano più le sue solite braccia. Erano bensì le braccia d’un giovane. S’incantò nell’osservare le proprie mani, forti, muscolose, dalla pelle liscia, libere di nuovo dalla firma del tempo.
Mentre la ragazza lo abbracciava, affondando il viso sul suo petto, il saggio studiava se stesso e la nuova bizzarra immagine che vedeva di sé. Le mani, le braccia erano giovani come lo erano state un tempo; la sua veste tornava a mostrare la dignità d’un tempo, il colore era rosso e vivido come nei suoi più lontani ricordi.
Non osò però sfiorarsi il viso. E si limitò per ora a rispondere ancora tremante all’abbraccio di quella misteriosa e bellissima fanciulla.
Solo allora ella disse: «Ti sei fatto aspettare, mio caro Jun’ichi!» – e nell’impeto dell’abbraccio i capelli neri di lei scoprirono alla base del collo, verso la spalla sinistra, una voglia a forma di giglio appena percettibile.
Alla presenza di questi segni un vivido ricordo, come un turbine, s’apriva strada agli occhi dello smarrito saggio e il tempo, sapiente ingannatore, si contrasse nuovamente, portandolo con sé.

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4

Il canneto lì vicino ondeggiava, ammaestrato dal vento, mentre gli eucalipti disegnavano finemente una rete di ombre e di luci. Il sole, che tiepido di primavera si stava alzando tra le colline, riusciva già a insinuare i suoi freschi raggi sin sotto il fitto fogliame del boschetto.
Il cielo era sgombro e il sentiero era bianco, tanto bianco da far nascere un contrasto troppo forte col verde degli alberi da un lato, e col biondo splendente del canneto dall’altro lato. Una strada deserta, candida come un osso e altrettanto diritta, perfetta linea di un confine immaginario tra il paese delle colline e il reame del re Mare. Anche se il canneto era incredibilmente vasto, non riusciva, infatti, ad allontanare abbastanza l’immensità del mare. L’odore umido e salato del mare giungeva a cavallo di quella stessa brezza leggera che ogni mattina, dall’inizio del mondo, veniva puntuale a giocare sul canneto.
Sopra ogni cosa, però, il silenzio.
Supremo regnante di quei luoghi, faceva tacere anche gli uccelli che popolavano quel misero bosco. Non si sentivano né le foglie che ondeggiavano sui rami, né le onde del mare poco lontano. Ogni cosa taceva immersa in fondo a quell’ostinato silenzio, che quel mattino concesse, soltanto per un poco, che s’udisse una breve frase d’amore d’una cicala tra le canne.
«Fa paura, vero, Jun’ichi?» – esordì il vocione di Tsuba.
«…» – guardava la terra, Jun’ichirō.
«Non passa mai nessuno per questa stradaccia.»
«Se non passa mai nessuno di cos’hai mai paura?»
«C’è troppo silenzio.»
«La senti la cicala? Lei, a differenza di te, non canta per paura ma per amore.»
«Sei sempre così simpatico la mattina presto!»
«Riposa ancora un poco, Tsuba, che faccio io la guardia al silenzio.»
Accovacciato sulla punta dei piedi, Jun’ichirō teneva raccolte le ampie falde del suo kimono rosso sulle ginocchia, così che non venissero a sporcarsi. Mentre parlava non mostrava il viso, rimaneva a testa china e, così facendo, i suo capelli neri e lucidi brillavano a tratti sotto i raggi di luce che filtravano tra le foglie d’eucalipto. Erano molto lunghi i capelli di Jun’ichi, tanto che poteva annodarli tutti insieme come si fa con una corda. Erano legati con un laccio di cuoio più su della nuca, e intrecciati in maniera tale che la grande ciocca corvina, che spuntava ancora fuori dal nodo, non cadeva più in giù del suo collo.
Stava diritto sulla schiena mentre stringeva con entrambe le mani il fodero decorato d’una spada.
Sul fodero un drago dagli occhi di giada inseguiva un sole dagli ampi raggi squadrati, tra articolate volute di fumo bianco e fiamme splendenti. Il fodero era vuoto.
«Jun’ichi, a mio parere passi troppo tempo con gli occhi su quella guaina vacante.» Tsuba, disse così e si rimise a dormire, grattandosi prima con forza.

Quando il Sole si fu alzato definitivamente sul suo trono in cima al Regno del Giorno, Jun’ichi si scosse e, una volta in piedi, infilò il fodero dentro la cinta e si fece più vicino al suo compagno di viaggio. «Tsuba!» – disse con voce decisa.
I sogni del povero Tsuba furono così interrotti bruscamente: «La giornata comincia sempre bene quando si è in tua compagnia, eh?»
«È tardi, bisogna tornare al villaggio e sai meglio di me che siamo attesi.» – e tra sé aggiunse: – «…e purtroppo non portiamo buone notizie.»

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5

Il signor Maeda mandò a chiamare Jun’ichiro alle prime luci dell’alba, mentre il sole si celava ancora alle spalle dei monti. Il padrone attendeva il più fedele dei sui servi nell’ampia sala da tè, dove due semplici stuoie ai lati di una bassa tavola di legno scuro decoravano tutte da sole l’interno di quella sacra stanza. Da un lato della tavola aveva già preso posto il signor Maeda. Poggiando sulle ginocchia e con le mani posate in grembo, studiava in silenzio l’ombra mutevole di un ramoscello di ciliegio che dall’esterno della sala si proiettava confusamente sulla lignea superficie del pavimento.
Un volto segnato dal tempo, inscurito dagli anni e indurito dalle difficoltà. Poche ciocche grigie sul suo capo, però, non erano del tutto sincere sulla sua età. Molte primavere erano passate su quelle terre da quando Maeda Noriaki aveva iniziato a custodirle, eppure la sua vera età era ben celata dietro al suo aspetto ancora fiero e gagliardo.
Uno degli shōji si schiuse appena, frusciando come una foglia, e lasciando entrare il bisbiglio di una serva che annunciava la presenza di un ospite. Il padrone di casa annuì gravemente. Seguirono passi felpati e veloci, la serva, seguiti a loro volta da pochi passi fermi, il più fedele dei suoi uomini.
Non appena Jun’ichiro fu dentro la sala da tè, la porta di carta di riso si richiuse alle sue spalle.
«Mi parlerai di amici…o di nemici?»
«Mio signore, se c’è mai stato un tempo per l’amicizia, oramai questo è lontano.»
Il volto di Maeda si inscurì ulteriormente. Si rituffò per alcuni istanti sull’ombra sfocata di quel ramo, mentre ancora Jun’ichiro gli stava alle spalle, in piedi.
«Sapresti raccontare con precisione tutto quello che hai visto?»
«Tsuba e io abbiamo studiato per quattro giorni e per tre notti ogni dettaglio di quel villaggio.»
«Bene, perché dovrete illustrare ogni aspetto della situazione a tutti gli uomini che ho convocato. Abbiamo raccolto un esercito, come ben sai, ma se il nostro comune nemico volesse sorprenderci non deve riuscire per nessun motivo nell’impresa.» – sospirò e, come una preghiera sussurrò – «Mi fido di te.»
«Istruirò il tuo esercito, sensei, ma non è stato ancora deciso che il tuo nemico sia anche mio nemico.»
«Jun’ichi, la strada che hai seguito per molti dei tuoi giovani anni ti ha portato fino a quest’uomo. Prima di ogni altra cosa, adesso, devi decidere se è Tokugawa il nome in fondo a questo tuo lungo cammino. E devi decidere se agire nel mio nome, o in nome tuo e della vendetta.»

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6

Sotto la mezza Luna che splendeva appesa nel cuore del cielo, un silenzio di grilli si stendeva facendo da sfondo al discorso singhiozzato di poche rane tra l’erba alta. La rada e breve foresta di ciliegi, che limitava la radura nella quale sorgeva la casa, si mostrava, nella pallida oscurità di quella sera, molto più fitta e buia e priva di colori. Da lì principiava la vera notte, quella che evita la luce dei fuochi e delle stelle, che si mantiene lontana dagli abitati, quella che corre nel fitto delle boscaglie, che avvolge i sentieri più sperduti, inghiottendo tutti i passanti che s’attardano dopo il tramonto.
La casa era oramai assediata da quell’animale oscuro e si salvava solo grazie a quei pochi passi di radura che la circondavano e grazie alle grandi lanterne accese sotto ai portici.
C’era una donna.
Placida e nobile in tutti i suoi gesti, ella eseguiva con determinata precisione la propria missione. Tutte le sere si premurava di accendere con pazienza ciascuna delle lanterne esterne alla casa. Mentre il padre e le altre persone della casa si occupavano di affari terreni, lei sola portava avanti quella lotta contro le tenebre. E la portava avanti senza rancore, senza furia, bensì con calma e dedizione, da molti anni oramai.
Quando Jun’ichi giunse presso il porticato, vedendola immersa, quasi dipinta, nel suo compito, non osò mostrarsi subito. Egli attese nella penombra della notte. Attese che il corpo di lei si tendesse leggero ancora una volta per accendere l’ultima lanterna. Era un uomo ormai e di certo lo era diventato troppo in fretta, ma quella visione lo portava indietro negli anni, indietro di quei pochi anni che lo separavano dalla sua breve infanzia. La veste bianca di lei, quelle ampie maniche dipinte di fiori azzurri, erano per lui pari alla nebbia di sogno che avvolge tutti i ricordi più preziosi e più lontani.
Quando quell’ultima lanterna accolse l’esile fiammella che la donna le portava, anche l’ultima penombra fu sciolta e in quella fioca luce, alle spalle della ragazza, fiammeggiò il rosso kimono di Jun’ichiro.
«Emi…» – era il nome di lei.
Lei, china per spegnere la fiammella dello stoppino che aveva usato per le lanterne, volse senza scatti il viso verso la voce conosciuta. Chiara la pelle del suo viso, pareva un gioco di luce, figlia dei raggi di quella mezza Luna appesa in cielo. La notte nera, invece, aveva infuso il suo colore avvolgente negli occhi di lei, che sottili come foglie di pesco, scrutavano la rossa figura di lui. Finché la piccola bocca non si schiuse, lasciando sgorgare un emozione: «Sei tornato!»
«Iniziavo a pensare che non ti saresti mai accorta di me!» – rispose lui, che voleva, per gioco, mostrare un po’ di fastidio con la voce e con lo sguardo.
«È da molto che ti piace fare il fantasma?» – lei sorrideva – «No, non dirmelo! È meglio se non lo so. Mi imbarazzerebbe da morire.»
Emi, detto ciò, rise alla propria vergogna e si portò una mano a sfiorare una guancia, come a portar via un po’ del rossore che poteva svelare quanto sincero fosse quel suo imbarazzo.
«Il compito degli spiriti è di vegliare su di noi e per farlo ci osservano non visti. Io non vorrei far altro che questo: vegliare su di te. Sempre.» Detto questo fu interrotto anch’egli dall’imbarazzo. Silenzio. Sguardi.
«Porti buone notizie per mio padre?»
«No. Mi dispiace, Emi.»
«Come stanno le cose? Raccontami, ma solo se pensi che una femmina possa conoscere i fatti di guerra.»
Jun’ichiro sospirò, ma non per stanchezza né per qualsivoglia tipo di fastidio. Era l’orgoglio di lei che lo inebriava. Il temperamento che mostrava quella ragazza, lo aveva rapito fin dal loro primo incontro, quando il padre di Emi, signore di Jun’ichiro, li aveva presentati pochi anni addietro. E da subito egli era stato affascinato dalla natura di lei: esile, fragile e bella ma, allo stesso tempo, carica di forza interiore, di passione per la vita e determinata in ogni frangente.
«Gli uomini di Tokugawa sono molti e ben addestrati e hanno già trasformato quel villaggio in una fortezza.» – disse serio, più serio che mai.
«È davvero impossibile sopraffarli? Sii sincero, te ne prego.»
«Non tutte le imprese mostrano a priori la loro vera natura. Soltanto dopo aver abbattuto l’albero sapremo dire quanto è stato difficile.»
Affievolendo la voce Emi soggiunse: «E la tua ricerca?»
Anche Jun’ichi si fece più serio: «Non so. Ho molti pensieri che mi affollano la mente e non sono persuaso da nessuno di essi.»
«Ma Tokugawa…»
«Tokugawa non avrà il tempo di decidere quali sono le colpe per cui sta pagando.» – l’interruppe lui – «Ha già commesso molti crimini certi, nessuno sente il bisogno di addossargliene altri incerti.»
«Neanche tu?»
Gli occhi di lei erano adesso pieni di pena e compassione per Jun’ichi. Lei lo amava e conosceva la sua storia. Sapeva anche che era la vendetta a costituire l’ossatura dell’esistenza di quel giovane e avrebbe voluto cambiare ciò con tutta se stessa. Sarebbe mai riuscita ad allontanarlo da quella strada oscura? Dubitava, ma non avrebbe mai rinunziato. Era, in fondo, questa la sua natura e l’amore l’avrebbe sorretta.
Il serio sguardo di lui s’era appena fatto più cupo, quando Emi decise che il gioco delle distanze aveva infine avuto il suo tempo. In pochi brevi passi gli fu innanzi e le sue braccia lo cinsero con calore. Anche lui rispose senza indugio al suo abbraccio, e ogni pensiero cupo volò via spazzato dal profumo di quella pelle candida e di quei capelli di seta. Il capo di lei affondava dentro al suo petto.
Un dettaglio però lo turbò. Qualcosa di nascosto. Nascosto alla vista e alla mente, ma in qualche modo percepibile. Qualcosa come un ricordo recente, ma in qualche modo rimosso. Si chinò allora per cacciarlo. Scostò con un dito i capelli di lei e fece per baciarle il collo, là dove la segnava, appena percettibile, una voglia a forma di giglio. Vacillò per un istante Jun’ichiro, senza che lei però lo notasse. Era turbato e svelto s’interrogò sul perché, ma nessuno gli diede risposta.

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7

Lo scricchiolio indiscreto del legno, causato dal peso di passi sicuri sotto il portico della casupola, strappò il vecchio dalla sua concentrata meditazione.
Egli, prima di meravigliarsi per l’ignota visita, si lasciò turbare ancora una volta dalla rinnovata fragilità della propria concentrazione. Presto, però, fu sopraffatto da un’altra nuova meraviglia, ma più simile a smarrimento: «Come può essere ciò che ho visto… forse… era il figlio deforme di Silenzio e Memoria?»
La tempesta pareva cessata da tempo. Il Sole era tornato a scaldare l’aria non più umida di pioggia, insinuando i suoi raggi sin dentro la stanza.
I passi s’appressarono all’ingresso e un’ombra fece scuro l’uscio.
«Cosa vi porta a vagare per questi vecchi boschi?»
Nessuno rispose, ma un profumo nuovo si spandeva nell’aria.
«Il vostro silenzio è forse frutto dei vostri affanni?»
Ancora nessuna risposta seguì. Quindi il vecchio saggio s’alzò pazientemente e, raggiunto l’ingresso, scrutò all’esterno. La luce del giorno l’annegò per un momento, accecandolo. Ma, anche se stanchi, i suoi occhi non tardarono a svelargli il mondo.
La voce che venne portava un timbro familiare: «Maestro, la tempesta s’è allontanata da tempo. Cos’aspetti chiuso in casa?» – era la stessa profonda voce udita sul ponte vecchio, quella voce che pareva venire da sogno.
Il vecchio abbandonò finalmente alle proprie spalle ogni stupore quando balenò nella sua mente una consapevolezza. Dopo tanti lunghi anni di silenzio e solitudine, di concentrata contemplazione della Natura, egli era riuscito infine a varcare una soglia. L’importanza di quella soglia era innegabile, dati gli sconvolgimenti dei quali la sua semplice vita era stata spettatrice in quei giorni, ma la natura di quel passaggio gli era ancora ignota. Se tale soglia fosse il varco per la follia o per la saggezza, questo lo avrebbero dedotto altri. Lui era giunto.
«Credo che stessi aspettando te. Non ti pare?» – così, con voce esitante ma con cuore leggero, il vecchio rispose.
Lo straniero stava avvolto in quel suo scuro mantello, e pareva brillare sotto il sole come una foglia imperlata dalla rugiada. Alle parole del vecchio non aggiunse altro che un sincero sorriso.
«La pioggia ti ha colto improvvisa sul tuo cammino?» – gli chiese il vecchio.
«Hai ragione, maestro!» – disse il misterioso viandante, scrutando una manica della propria veste, mentre il suo sorriso si apriva sempre più, illuminando quel viso oramai quasi familiare – «Vorresti tenermi compagnia facendo due passi? Giusto per dare il tempo al sole di asciugare i miei abiti.»
Il vecchio rispose con serenità: «Il Sole oggi dovrà preoccuparsi di asciugare, oltre ai tuoi panni, anche le mie povere ossa!» E, detto ciò, raccolse un bastone e spinse due passi fuori dalla casupola. L’aria sentiva di miele e menta.

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8

«Jun’ichiro, non ti ho mai chiesto nulla, lo sai?»
«Sì, Tsuba, lo so.»
«Credi che sarebbe qualcosa come un tradimento?»
«Cosa, Tsuba?»
«Se te lo chiedessi.»
«Cosa senti il bisogno di conoscere?»
«Vorrei solo sapere perché.»
«Il perché di cosa?»
«Perché tutto ciò? Tutto il tormento che ti segue in questa missione. Cosa l’ha fatto nascere? Cosa cerchi in questa faida tra famiglie? Non ci appartiene, noi siamo servitori. Per quanto fedeli, siamo solo servitori. Eppure ti ha preso una tale amarezza nell’anima che pure il tuo solito taciturno comportamento ne ha risentito. Sei silenzioso come sempre, ma stavolta ci sono i tuoi occhi che non la smettono di parlare.»
«Ho seguito una strada.»
«Quale strada?»
«Se sono qui oggi, non è per caso. Tanti anni ho passato inseguendo il mio destino.»
«Ed è qui che si compirà questo tuo destino?»
«Manca poco.»
«Continuerai a parlare per mezze frasi tutto il giorno o mi racconterai anche qualcosa di vero?»
«È da tanto che mettiamo i piedi sullo stesso passo, tu mi conosci meglio di chiunque altro. Meriti di sapere.»

Il giorno che nacqui, i miei genitori scelsero per me un nome che dicesse alla Fortuna ch’io sarei stato il primo figlio di una grande famiglia. Così non fu.
Vivevamo in un ricco villaggio e la mia era una famiglia dalle nobili origini.
Purtroppo, un periodo di grande siccità, aggiunto alla morte per malattia di tutti i fratelli di mio padre, portò sulla casa dei miei genitori un’improvvisa povertà. I debiti, che mio padre aveva contratto con diversi avidi creditori irrispettosi verso le altrui sofferenze, per riuscire a rimettere in sesto l’intera famiglia, gli crearono molti nemici.
Il primo pensiero di mio padre e mia madre, forse presentendo già l’ombra stendersi sulla nostra casa, fu quello di preservare il loro figlioletto in fasce. Scrissero diverse lettere a un saggio maestro che viveva nei boschi non lontani dal nostro villaggio. La scuola che questo sant’uomo teneva viva da decine e decine d’anni era dal valore riconosciuto in tutta la regione, ma non era per tutti. Proprio per questo motivo i miei genitori dovettero nottetempo partire per portarmi in segreto al cospetto del maestro.
Solo la notte conosce i volti di chi portò loro via la vita. Io so solo che mi risparmiarono, forse per errore, forse con la speranza che morissi di freddo o fame o magari sbranato dai lupi.
Ma il Fato avverso di quegli uomini si personificò proprio nel maestro.
Per me, invece, fu la Fortuna a guidare il vagare di quel saggio proprio nel luogo dove io, ancora tra le braccia fredde di mia madre, lottavo con la morte.
Egli mi prese con sé, mi accolse in casa sua, non come un discepolo ma come un figlio. Mi insegnò moltissimo nei vari anni che gli fui accanto, mi custodì dai nemici della mia famiglia, mi crebbe nel rispetto del silenzio, della Natura e della vita umana. Tuttavia, mi insegnò anche molti modi per reciderla una vita umana. Sapendo forse a quale scopo mi sarebbe servito un giorno tutto ciò.

Anni dopo, la morte mi venne a cercare una seconda volta.
Io ero via per una commissione in città, proprio per conto del mio maestro. Fui di ritorno dopo un giorno di assenza.
Era l’alba, l’altura sulla quale era costruita quella casa era circondata dalla nebbia. Ricordo che quando fui sotto al porticato, mi voltai ad ammirare la vallata, e le punte degli alberi che sbocciavano proprio dalla nebbia. Il sole schiariva la parte bassa dell’orizzonte e il fianco dei monti.
A quel punto scostai gli shōji e vidi il corpo del mio maestro, ancora in ginocchio, come stesse meditando. Aveva il petto trafitto, e in mano stringeva ancora il fodero della sua spada. La spada mancava. Forse l’uccisero proprio con la sua stessa arma. Devono averlo sorpreso durante la preghiera e, dai segni che scoprii tutto attorno alla casa, si capiva che erano stati in più di tre ad avergli teso quel vile agguato.
Molto ho viaggiato – anche prima di conoscere te, mio caro Tsuba – e tanto ho cercato i responsabili della morte del mio maestro. Questa mia lunga ricerca ha portato frutti molto amari.
Le tracce che ho seguito in tutti questi anni mi hanno svelato molte ombre, anche sull’omicidio dei miei genitori.
Mi chiedi il perché del mio turbamento. So di essere vicino alla mia meta, anche se ancora vedo solo nebbia avanti a me.

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9

Miracolosa fu la sensazione che l’intera foresta s’aprisse avanti ai loro passi. Mentre il vecchio e il viandante s’incamminavano nel verde, pareva al vecchio che ciascun albero scivolasse da parte e, una volta lasciatosi superare, li seguisse come fanno i curiosi o come i fedeli che si avviano a una cerimonia sacra.
Non parlava lo straniero, sorrideva guardando avanti a sé e di tanto in tanto poggiava una mano sulla spalla del vecchio eremita per indicargli la direzione da dare al proprio passo.
Camminarono a lungo, ma senza mai abbandonare la parte del bosco familiare all’anziano saggio. Proprio per questo fu grande lo stupore del vecchio quando scorse avanti a sé un piccolissimo tempio in legno chiaro. Egli conosceva quella strada meglio delle rughe sul dorso della propria mano, ma adesso guardandosi attorno scopriva di non essere mai stato in quel lembo di foresta.
Il tempio aveva l’aspetto molto antico, e anche lo stile di costruzione era di un’epoca lontana. C’erano ancora i segni di bande dorate sugli stipiti e ai bordi del piccolo tetto spiovente.
L’uomo senza nome non parve curarsi del fatto che il vecchio aveva rallentato il passo alla vista del tempio, e continuò a camminare fin quando non fu a qualche passo dalla costruzione. Allora, voltandosi e posando il suo sguardo amichevole sul vecchio, disse: «Sei stanco, maestro, vero? Vieni avanti, riposa un poco e bevi.» Detto ciò lo fece sedere sul primo dei gradini del tempietto e gli porse una ciotola che riempì da una brocca di terracotta.
Il vecchio maestro s’accorse della propria infinita stanchezza solo dopo le parole dell’uomo. Sorseggiò avidamente l’acqua dolcissima ch’era nella ciotola e si sentì straordinariamente dissetato. L’uomo quindi gli indicò una stuoia distesa all’interno del piccolo tempio e si allontanò verso il folto della foresta.
«Tu, maestro, riposa. La strada è ancora lunga.»
La spossatezza del vecchio corpo del saggio era tanta e tale che il povero eremita non potè far altro che stendersi e assopirsi.

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10

Il rosso kimono bruciava nella fioca luce dell’alba, alla testa dell’esercito dei Maeda. La corazza era ridotta all’essenziale, solo alcune bande di cuoio e metallo non decorato, a proteggere parte del busto e delle cosce. Entrambe le mani erano fasciate da una larga benda nera che si svolgeva dal palmo fino quasi alla fine dell’avambraccio, mentre le ampie maniche del suo kimono erano legate da un unico laccio all’altezza delle spalle.
I lunghi capelli corvini erano raccolti in alto, lontani dal viso, per mezzo di un sottile nastro di seta, un ultimo dono da parte di Emi, prima di quella guerra che lei non accettava.
Alla cinta portava una katana nera dalla rigida custodia. L’aveva scelta quella stessa mattina, tra tante altre spade, per la leggerezza dell’impugnatura e per l’equilibrio che la lunga lama gli trasmise quando per provarla sferrò alcuni colpi in aria. Sapeva con certezza che era una buona arma.
Jun’ichiro sapeva però che l’arma che gli avrebbe dato tutta la forza necessaria per la battaglia era legata sul suo dorso. Era la guaina vuota della spada del suo vecchio maestro.
L’esercito si mosse presto e senza troppo clamore, seguendo le insegne della famiglia Maeda e schiarendo con poche fiaccole l’aria di quel giorno scuro.
Era certo che Tokugawa s’aspettasse quell’attacco ed era anche fatto certo che non si sarebbe lasciato trovare impreparato. Le spie di quell’assassino erano ovunque nella regione.
Il tragitto del numeroso esercito guidato dal samurai rosso parve a tutti gli uomini interminabile. Le strettoie e le gole di pietra scavate dai ruscelli, che dovettero attraversare per giungere non visti alla meta, aumentavano l’idea di un tortuoso cammino senza fine. Eppure, appena giunti nel territorio nemico alle falde della collina sulla quale sorgeva la compatta fortezza dei Tokugawa, nessuno riuscì a non pensare tra sé e sé che era ancora troppo presto, che non si può andare incontro alla morte in un’ora così giovane del primo mattino.
Il campo di battaglia era lì davanti a loro, quel pendio della collina. Era sgombro da ostacoli e s’apriva come un letto pronto ad accogliere tutti coloro che erano lì per morire. Pareva emanare anche calore, quella terra maledetta!

Il Tempo, capriccioso e bizzarro come sempre, affrettò il passo tutt’ad un tratto. La battaglia scoppiò con un clamore improvviso e dalla fortezza si riversarono sulla collina una valanga di uomini armati. A colpo d’occhio non si sarebbe potuto dire quale dei due eserciti era superiore in numero, ma di certo quella eruzione di membra e spade che dalla cima della collina inondò in breve il campo di battaglia fu un duro colpo per l’esercito dei Maeda.
Solo Jun’ichi e Tsuba non furono sorpresi da questo agguato. Essi, non solo sapevano, ma avevano anche visto giorni prima con i propri occhi l’esercito nemico che si preparava a quello scontro.
Quando l’esercito dei Tokugawa ebbe raggiunto la metà del declivio, partì dal fondo della collina la voce ferma del giovane samurai. L’orda di guerrieri al suo comando scattò in avanti e rapidamente fu sul cuore del campo designato alla battaglia.
Le scene della guerra sono identiche in tutto il mondo, in tutte le epoche. Non ci sono cause degne di essere ricordate, non ci sono scopi santi da conseguire, non si lotta per la sicurezza del proprio popolo, non si lotta per la redenzione della propria anima, non si lotta per amore, non si lotta neanche per odio vero. Odio è solo un nome vuoto che serve a coprire una storia malata, una tradizione violenta e senza senso.
Una volta vuotate le vene dei propri nemici, nessuna vittoria cancella la colpa, nessun mondo migliore di là dallo scontro, nessuno riporta in vita i propri morti. È sempre e solo la morte a portar via qualcosa alla vita, e rimane già così poco…

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11

Il Sole era già alto quando anche l’ultimo uomo di Tokugawa venne sopraffatto da quel che rimaneva dell’esercito dei Maeda.
Non un filo d’erba su quel campo era rimasto vestito del suo puro verde. Come se fosse piovuto dal cielo per un giorno intero, il sangue copriva ogni cosa sul crinale della collina. Quelli che un tempo erano uomini adesso si erano ridotti a pochi animali stanchi, chini sui resti inanimati della propria gente. Fratelli, figli, amici, tutti caduti. E chi non lo era rimpiangeva in silenzio di non esserlo.
La corazza di scuro legno della fortezza sulla cima della collina era ancora intatta quando alcune torce timidamente le chiesero di bruciare, di ardere fino a lasciare soltanto scuri tizzoni senza significato, senza storia.
Alcuni animali, i più spaventati tra tutti gli animali che ancora si muovevano sulla collina, indossando le sembianze di uomini, stavano con le mani legate e inginocchiati come in preghiera, messi in fila dai soldati di Maeda. Piangevano, piegati dalla sconfitta e costretti a guardare l’incendio che divorava le mura della fortezza.
Soltanto uno, tra tutti i prigionieri, non pareva aver capito la scena. Il suo volto impassibile, tagliato in una espressione tra il sarcastico e il severo, non mostrava il minimo segno della sconfitta. Né umiliazione, né rabbia. Soltanto un sottile velo di stanchezza stingeva tanta serenità.
Era proprio lui il male da estirpare dalla regione, era il nome più temuto e da tutti detestato, era Tokugawa Shintarō, il “Cane”.
Egli stava seduto, fendeva l’intero campo di battaglia col suo sguardo, soffermandosi fissamente su ciascun volto nemico. Pareva uno scultore a lavoro, intento a imprimere le fattezze di quei visi nella propria memoria. C’era questo nel suo sguardo: la vendetta.
Ma tra tutti i volti che lo circondavano, soltanto uno mostrò l’ardire di rispondere al suo sguardo. Ed era tanto l’odio con il quale sosteneva quel duello d’intenti, che non pareva possibile provenisse da un così giovane viso. Imberbe, pallido, dannatamente serio, avvolto in quella veste color di fuoco, di sangue. A Shintarō, per un attimo, parve un demone, un guardiano del male, venuto a compiacersi su quel campo di morte ancora caldo di sangue.
Ma a quest’impressione folle, seguì una certezza reale: chiunque o qualunque cosa fosse, era venuto per lui. Questo era scritto in quei giovani occhi.
Jun’ichiro s’appressò alla sua preda, slacciando lentamente dalle proprie spalle quel fodero vacante. Non vedeva nessun altro se non Tokugawa. Giuntogli proprio di fronte, mostrò quello che aveva in mano e parlò lentamente e con voce ferma: «Tokugawa Shintarō, cane maledetto, nell’inverno del mio primo anno di vita, tu e i tuoi vili compagni mi portaste via mio padre e mia madre. Era una notte di gelo e lasciaste me a morire di freddo, protetto solo dai cadaveri dei miei genitori. Io mi salvai e, anni dopo, tornaste per cancellare il vostro errore. Questa guaina conteneva la lama che uccise il mio maestro, mio secondo padre, cui dovevo la mia vita.
Sono venuto a prenderti quest’oggi per finire la storia. La tua storia. Avete commesso due volte lo stesso errore, tanta stupidità porta solo a questo…»
Disse queste parole e, lasciato cadere il fodero, sguainò la sua spada e l’accosto alla gola di Tokugawa, senza esitazione ma tanto lentamente da sembrare un sogno.

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12

Rise.
Il “Cane” rise.
Dapprima rise piano. Quindi, crescendo il suo compiacimento, cresceva anche la sua scompostezza. E quel viso inattaccabile, quella maschera tacita che fino a pochi istanti fa lo ricopriva, si dileguò ed egli si mostrò in tutta la sua malignità. Tutto venne fuori con una risata.
Jun’ichiro non lasciò tremare la sua mano neanche per un attimo. Rimase immobile, intaccando appena la gola di Tokugawa con la punta della lama. Aspettò che quel cane finisse la sua insana esplosione di gioia. Solo quando la risata fu di nuovo silenzio, mosse la spada, allontanandola dalla gola. Con un movimento snello del polso, lo schiaffeggiò proprio con la lama della katana, sfregiandolo a una guancia. La lama tornò immediatamente sulla gola di Tokugawa.
«Vuoi sapere perché rido, vero ragazzo? Perciò mi tagliuzzi? Rido di te, se non lo capisci ancora.»
La voce del «Cane» sibilava.
Pareva un varano con quella sua carne scura e ruvida di vecchio. Mostrava i denti come una serpe che vuole incantare la sua preda, e proprio come una serpe, fissava perverso gli occhi del suo deciso carnefice.
«Ti ho riconosciuto, sai? Tu sei lo scoiattolo cieco di quell’infame di Maeda Noriaki!» – rise ancora più forte.
«So tutta la tua storia, non annoiarmi con i dettagli! Vieni qui a raccontarmi fatti che già conosco bene. Meglio di te!
Dovresti metterti tu qui seduto al posto mio ad ascoltare, invece di fare la marionetta davanti a me!
Noriaki riderà come un pazzo, proprio come io faccio adesso, quando saprà che sei stato proprio tu ad aprirmi la gola. Non crederà di esserci riuscito, quel diavolo! Pare un monaco quando parla, vero? Parla ancora come un monaco? Ogni volta che apre bocca pare proprio che stia predicando! È il suo dono!
Tutti abbiamo un dono, povera marionetta! Il tuo è l’essere cieco, completamente cieco! Tanto cieco e tanto stupido che presto sarai il figlio prediletto di Maeda, senza sapere la verità. Sarai anche in regola con la tua coscienza, visto che hai già ucciso il tuo passato, hai ucciso me, l’assassino dei tuoi cari…»
Il sorriso malato che il “Cane” mostrava insistente non aveva più lasciato passare una parola. Il discorso confuso di Tokugawa s’era interrotto improvvisamente, come se egli avesse deciso ad un tratto di non rivelare un segreto.
Nel frattempo, dietro ordine di Jun’ichiro, tutti gli uomini s’erano allontanati dalla cima del colle, portando anche i prigionieri ai piedi del pendio. Le fiamme che avvolgevano la fortezza s’erano alzate rapide. Il fumo aveva coperto il cielo, nascondendo il chiarore del sole. Tokugawa vedeva il ragazzo vestito di rosso, alle spalle del quale fiamme alte come cipressi mangiavano la sua fortezza perduta, sotto quel cielo nero e irrespirabile.
«Io sono già dove dovrei essere» – disse a sé stesso – «Nulla ha più senso per me, questo è il buio tormentato cui sono stato condannato da tempo, è il mio destino.
Voglio solo… che quel verme di Noriaki si guadagni un posto accanto a me… proprio qui, in mezzo a queste fiamme…» – disse questo e si fece triste. Abbassò il capo.
Successe allora che, approfittando del fatto che erano rimasti soli lì in cima alla collina, parlò finalmente anche Jun’ichiro. La sua voce tremava.
«Ti sbagli su di una cosa. Io lo so, so anche di Maeda. Quello che non sai è che vorrei tu avessi ragione, vorrei essere cieco, stupido… vorrei non sapere nulla di quel che so!» – urlò le ultime parole, dopodichè scosse la spalla. Fu un attimo, il sangue di Tokugawa sgorgò limpido e chiaro come il succo d’un frutto ancora acerbo.

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13

Riaprì gli occhi che il sole era quasi tramontato. Il tempietto era scuro all’interno, poche sagome di oggetti accatastati qua e là nell’ombra. S’accorse solo dopo un lungo momento di silenzio e smarrimento che non era solo.
«Maestro, ha riposato il tuo corpo?» – disse lo straniero, ancora avvolto dal suo particolare mantello, che nella penombra della sera pareva quasi luminoso.
Se ne stava seduto, con le gambe incrociate e le mani aperte con i palmi sulle ginocchia.
Il vecchio aveva ancora avanti a sé un mare in tempesta, una nube burrascosa fatta di sensazioni, di visioni, forse anche di ricordi. Tante erano le parole che salivano alla sua gola, tante erano le domande. Ma cosa chiedere? E poi, quale risposte poteva dare lo straniero?
Ma proprio quando la mente dell’anziano eremita era al culmine della confusione, naufrago nel mare del dubbio, l’altro prese a parlare.
«Raccontami, maestro» – sorrise come avrebbe sorriso a un vecchio amico malconcio. Il vecchio si rese conto tutt’ad un tratto di quanto fosse concreta la sua esperienza, questo cammino impervio che seguiva dentro di sé, forse da sempre, o forse proprio da quel giorno sul ponte. Non era un semplice sogno, non era soltanto un ricordo particolarmente vivido. La sua vita si stava davvero mescolando con il passato?
«Sta accadendo davvero tutto ciò?» – chiese il vecchio, ansioso di conferme.
«Quale parte del mondo o del tempo ti è stata rivelata?» – chiese lo straniero, inclinando leggermente il busto in avanti per meglio ascoltare le parole di quella voce tremante e spaventata. Il vecchio a sua volta rispose con un lunghissimo silenzio, mentre il suo petto batteva come quello di un puledro dopo una furiosa galoppata.
Solo dopo lunghissimi momenti di affannato silenzio il vecchio eremita riuscì a dire con un filo di voce: «Davvero è questa l’illuminazione finale? O ne è solo la soglia? Davvero siamo tanto miseri da non essere degni della rivelazione in tutta la sua perfetta completezza? Siamo tanto stolti da non poterne carpire i significati se ci venisse presentata tutta in una volta?
È tanto grande il mistero di questa vita, di questo Universo per noi mortali? Tanto da venirci svelata a spicchi, come un frutto troppo grande…» Queste ultime parole avevano perso anche il tono interrogativo che avevano le precedenti, oltre ad aver perso gran parte della sconvolta sicurezza che aveva quella prima domanda, «…è questa l’illuminazione finale?»
Il saggio eremita giaceva adesso accasciato a terra, mentre con una spalla malamente poggiava contro la parete. Con l’ossuta mano sinistra stringeva il proprio petto. Stringeva e ansimava. L’affanno, la paura. Anche la rabbia era salita su su lungo le sue vene. Ripeteva tra sé e sé che non aveva senso meditare per una vita intera, cercare il silenzio interiore, la calma perfetta e poi, quando più serve tutto ciò, ubriacarsi di emozioni, come un bambino, più di un bambino.
Intanto nel petto gli cresceva un dolore reale, il respiro era sempre più un’impresa difficile.
Fu allora che il viandante fece scivolare il cappuccio del proprio mantello, scoprendo di più quel viso straniero. Si accostò al suo compagno sofferente e con la voce di un padre disse: «Vecchio, lascia cadere tutto questo peso che t’affanna. Non portare con te ciò che non è necessario. Il tuo viaggio non finisce qui, la strada non finisce mai. Per questo è importante che tu lasci ogni cosa superflua dietro di te. Ricorda quel che ti dissi. Ti è stato fatto un dono, non sprecarlo.» Poi sorrise al vecchio e, poggiatagli una mano sul capo, gli accarezzò la fronte con il pollice, proprio come si fa con un ragazzino cui si vuole perdonare un grosso pasticcio.
Il dolore al petto del vecchio s’acuì, ma ciononostante egli cercò ancora di parlare. Le sue parole tuttavia riguardavano un altro tempo, un altro mondo. Il suo mondo.
«Cos’altro potevo fare? Dimmelo! La prima cosa che imparai dalla vita era la vendetta… cos’altro potevo fare?
Tornai da quell’assassino con in mano la testa del suo nemico, del suo complice…
Io sapevo tutto. Sapevo che aveva distrutto tutta la mia vita, la mia famiglia, soltanto per il denaro, per il potere.
Ero diventato un samurai.
E lo ero diventato proprio per inseguire la vendetta.
Non c’è motivo più sbagliato per diventare samurai… se m’avesse visto il mio maestro!» – il vecchio saggio lacrimava fuori queste parole, come una ferita sgorga sangue – «Cos’altro potevo fare?
Lei non capì. O forse capì, ma non lo accettò.
Come poteva?
Era mostruosa la calma con la quale Maeda mi raccontò tutto. Mi spiegò che la famiglia di mio padre aveva acquisito troppo potere, proprio per questo tutte le altre che lo bramavano il potere… lo uccisi.»
Il silenzio gli cadde addosso come una lama di spada. Anche il respiro s’interruppe. Il viandante lo scrutava ma senza ansia, come sapesse già tutto di quel vecchio spezzato che ora gli giaceva davanti.
«Io… lo uccisi…» – ripeté disperatamente ancora una volta. Poi il pianto gli bagnò il viso come avrebbe fatto un acquazzone e disse: «…e lei si tolse la vita!»
L’urlo che subito dopo gli squarciò il petto lo rese sordo e lo paralizzò. Tanta era stata la forza che egli aveva opposto a quel dolore nei suoi lunghi anni e, proprio per questo, tanto più grande fu lo spasmo che gli contorse le membra quando quel dolore infine lo sconfisse.

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14

Gli occhi di lei quella sera non brillarono, erano asciutti. Aridi gli occhi, arida l’espressione.
Tutto quello che Jun’ichiro le aveva raccontato, ogni singola parola, giaceva ancora lì tra loro. Era un corpo caldo ma con la morte dentro e giaceva inerte tra le loro due giovani vite.
Il ragazzo indossava ancora la guerra: ferro e sangue. L’esile corpo di lei invece stava avvolto nel silenzio e nella disperazione. Il kimono turchese che lei indossava s’era macchiato anch’esso di sangue quando, al ritorno del suo amato dalla battaglia, gli era corsa incontro abbracciandolo senza più pudore.
Ma adesso, dopo le parole di lui, dopo il racconto di quella che era la verità sulla morte dei suoi cari, era tutto diverso. Adesso era troppo evidente quanta parte delle loro giovani storie, compresi il loro incontro e il loro amore, fosse stata decisa e condotta per mano proprio dalla vendetta.
«Non farlo, te ne prego.» Fu un sospiro, non una voce, ma che via via crebbe: «Non ucciderlo.
Andiamo via da qui, tu ed io. Andiamo via, lasciamo tutto alle nostre spalle… tutto questo dolore, questa follia, quest’odio. Non macchiarti di altro sangue, per amor mio, ti prego!
Sono qui davanti a te, se vuoi te lo chiedo in ginocchio, vedi? Sono qui davanti a te, amore mio, e ti prego con tutta me stessa… non lo fare.
Trasforma tutto quest’odio in amore, dimentica una volta per tutte, anche io dimenticherò, lo faremo insieme… saremo felici lontano da qui e senza memoria alcuna, se non del nostro amore.»
Tanta passione spandevano quelle parole, da quella voce di ruscello. Tanta che addirittura una lacrima cadde giù dal viso del guerriero al viso della ragazza inginocchiata e aggrappata alla sua veste rossa.
Una lacrima sporca di sangue.
Purtroppo quella lacrima si seccò in breve tempo, senza lasciare nessun segno.
Jun’ichiro si chinò sulla sua Emi, su quel raggio di luna sofferente, le baciò i capelli, poi in silenzio allontanò le braccia di lei da sé e andò via.
Quando gli shōji furono richiusi, ed Emi fu di nuovo sola, finalmente pianse. Poche lacrime, che aspettavano molto tempo prima di cadere. Rimanevano a caricarsi di dolore in bilico sulla punta delle sue ciglia, come fa la rugiada che s’attarda a staccarsi dalla foglia.

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15

Egli già sentiva a ogni rifiato del proprio respiro quanto fosse immenso e freddo il vuoto nel quale stava per gettare la propria vita.
Ma era qualcosa più di un sentimento. Per quanto forte possa essere il più sconvolgente tra i moti del cuore, quella consapevolezza che Jun’ichiro viveva in quei momenti non poteva ridursi a paura, né a una disillusione, né poteva essere soltanto il sintomo dell’incombente sacrificio.
Cos’era quindi?
Si guardava le mani e sentiva crescere dentro di sé la confusione. Cosa manca? Cosa aveva perso di vista lungo la strada? Cosa aveva dimenticato? Dove stava sbagliando?
Camminando sotto il portico della casa dei Maeda, rallentò sempre più il passo, che da affrettato si fece stentato, fino a lasciarsi cadere in ginocchio.
Cosa avrebbe fatto adesso?
Sarebbe passato sul retro della casa, sapeva dove trovare Maeda Noriaki. Egli si sarebbe presentato non annunciato stavolta e sarebbe stato un attimo. Niente discorsi, niente parole inutili. Morte.
Ma allora perché nella sua mente sentiva l’eco di quella voce, della voce di Maeda? Un discorso vero e proprio affiorava dai suoi ricordi. Quando aveva avuto luogo? Questo Jun’ichiro non avrebbe saputo dirlo.
Il sudore colava dalla sua pallida fronte e lungo alcune ciocche nere di capelli appiccicate a incorniciargli lo sguardo tetro.
Fu come se si strappasse la notte attorno a lui.
La casa, il portico, le stanze e le pareti, le stelle in cielo, gli alberi e i campi coltivati, le proprie vesti, tutti gli odii e gli affetti. Tutto lacerato in un istante. Era improvvisamente giorno. A circondarlo erano apparsi degli alberi, una moltitudine silenziosa di alberi, e tra gli alberi un sentiero. Il giovane samurai non credette ai propri occhi.
Fece per alzarsi in piedi con uno scatto, ma non vi riuscì. Cadde seduto. Perché?
Si accorse allora di non indossare più l’armatura, e la sua veste era cambiata, era lacera e aveva perso quasi tutto il suo colore. Ma solo quando si portò davanti al viso le sue mani, capì.
Ricordò.
Ricordò ogni cosa.
Ma tutto ciò fu solo un attimo. Un nuovo incredibile squarcio aprì il velo del mondo. Come una porta di carta di riso gli si schiuse davanti agli occhi, di nuovo la notte, il portico, il suo kimono rosso, il sudore, il sangue.

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16

Adesso sapeva cosa doveva fare.
Egli era lì, di nuovo, per ripetere una scelta, per correggere i propri errori, per salvarsi. La gratitudine improvvisamente gli riempì il cuore e un grazie senza meta gli sfuggì davvero dalle labbra.
Si alzò dunque, inspirò l’aria della sera quasi a farsi esplodere il petto. Era l’odore del mare, quello che il vento aveva portato fin lì. Jun’ichiro quasi sentì alle caviglie la fresca acqua e le onde carezzevoli di quella riva lontana, sentì la sabbia frusciare sotto i suoi piedi e benedisse quel vento.
Si voltò dunque e corse, come fuggisse dalla morte, come se fosse proprio la fine del mondo intero a inseguirlo. Il tempo gli divenne nemico e, pensando questo, il giovane samurai corse ancora più forte.
Erano pochi passi, ma ci volle un’eternità per percorrerli. Quasi sfondò la parete di carta, quando piombò come una tempesta nuovamente dentro la stanza che aveva appena abbandonato.
C’era buio. Le molte candele, che illuminavano fino a pochi istanti prima l’ambiente, erano spente.
Tutte tranne una.
Quest’unica fiamma disegnava poche timide pennellate rossastre in quell’oscurità maligna, che si preparava ad accogliere la fine. China sul fondo di quella spoglia camera tremava insieme alla fiammella l’immagine accennata di un volto di donna. Non era più il viso soave di quella ragazza che accendeva le lanterne sul far della sera. Era il volto di una donna impietrito dal dolore, scavato nella disperazione. Lo sguardo fisso su di una brillante lama di pugnale. Emi, quel pallido raggio di Luna che si perdeva per sempre in una lacera notte di primavera.
Egli, scorgendo quella figura senza più speranza, anziché parlare, sguainò la spada. Anch’essa non era ancora sazia di sangue e s’accese della flebile luce di quell’unica candela. Con un gesto furioso se la puntò al ventre e urlò: «Andremo insieme!»
Solo allora Emi, con tutta la pesantezza del mondo concentrata in quell’unico semplice gesto, voltò il suo docile sguardo verso Jun’ichiro.
Parve svegliarsi improvvisamente da un lunghissimo sonno, sgranò gli occhi e, lasciando scivolare dalle mani il pugnale che teneva vicino al petto, si slanciò con le braccia in avanti, verso il suo angelo rosso. Emi cadde con le mani a terra ed egli la vide protendersi con tutta sé stessa come una storpia verso di lui.
«No!» – la ragazza urlò implorante – «Non tu!»
Ed egli: «Questa volta… neanche tu.»
Gettò anche lui la sua lama verso l’angolo più buio e lontano. Poi lanciò sé stesso a raccogliere quelle esili braccia imploranti.
«Andremo insieme» – ripeté ancora una volta, con una voce di padre.
«Andremo insieme, via da questo posto.
Vivremo altrove, felici, tu ed io. Insieme. Andremo insieme.» Lacrime.
Emi sentì scoppiarle in gola qualcosa di caldo come il cuore e allontanò con uno scatto il suo viso dal petto di Jun’ichiro, solo per poter leggere quelle parole di speranza in quegli occhi sempre tristi. Quegli stessi occhi che adesso, velati dalle lacrime che lavavano via il sangue dal suo viso, le sorridevano sinceri e arresi e allo stesso tempo determinati a proteggere quel loro prezioso e fragile amore.

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17

Fuggirono.
Attraversarono tutte le regioni del Giappone, fino a trovare un rifugio da quel mondo crudele che li inseguiva.
Una capanna. Nel folto di una foresta secolare.
Quello sarebbe stato il nido del loro amore finché la vita li avrebbe accompagnati.
«Jun’ichiro, non ci servirà altro, se non il tempo di dimenticare quello che abbiamo lasciato.»
«Dimenticheremo, ma solo perché avremo molto altro da ricordare!» – disse così e la baciò. Egli sapeva meglio di lei che era stato fatto loro un dono, proprio come aveva detto lo straniero sul ponte.
La capanna era abbandonata da moltissimo tempo, ma sarebbe bastato poco per renderla una vera casa. Non si lasciarono il tempo di riposare.
Lavorarono a quella casa per quasi un giorno intero.
Sistemarono le assi del tetto, tolsero le schegge dal legno del portico, ripulirono a fondo l’interno dell’abitazione e infine disposero le poche cose che avevano portato con loro.
Quando la giornata era al termine, anche le forze dei due giovani si erano esaurite. Ma non si era esaurita la fiamma vivace della speranza che illuminava quei loro occhi con la luce di un sogno.
Il corpo di Jun’ichiro era spezzato dalla fatica, ma non la sua mente. Pensò intensamente per molte ore della notte a quel che la vita gli aveva concesso.
Una seconda opportunità. Non l’avrebbe sprecata, questo ripeteva tra sé e sé.
A un certo punto della notte, quando s’accorse che la Luna illuminava la foresta, lasciò il suo giaciglio accanto a Emi e uscì all’aperto, sul portico. Le assi scricchiolarono leggermente sotto il suo peso ma, quando si voltò per vedere se l’avevano svegliata, la vide chiara nella penombra. Con le labbra socchiuse respirava serena su di un lago di sogni.
Egli allora s’allontanò anche dalla capanna e, nel silenzio della notte, si inoltrò nella boscaglia seguendo un tortuoso sentiero. Sentiero che egli conosceva bene.
Infatti, in breve tempo, vide apparire tra gli alberi il biancore di un piccolissimo tempietto abbandonato. Si avvicinò cauto all’ingresso del tempio, quando a un tratto la familiare voce dello straniero lo fece voltare.
«Ti è stata posta davanti più di una semplice guerra e tu hai sconfitto te stesso, maestro.»
«Non sono più un maestro o non lo sono ancora, è difficile dirlo!» Sorrise Jun’ichiro alla vista del viandante senza nome, la gioia e la gratitudine erano il succo di ognuna delle sue parole.
Lo straniero gli si appressò e lo abbracciò. Si sedettero allora sui gradini del tempietto. La Luna accendeva la breve radura avanti a loro.
«Hai ragione quando dici che è difficile da capire. Sono molte le cose difficili da capire a questo mondo. E anche negli altri mondi, non credere sia diverso!
Ma il nostro compito non sempre è quello di comprendere. Noi viviamo, e accettiamo di vivere.
Questo è tutto ciò che conta. Vivere.
E tu, adesso che sei vecchio, la tua vita l’hai vissuta, onorando chi questa vita te l’ha data.»
Le parole dello straniero erano come i cerchi nell’acqua scossa di uno stagno. Lente s’aprivano e si spandevano nell’aria della notte. Ma per Jun’ichiro l’effetto più evidente non erano le onde, ma il colpo del sasso sulla superficie. La superficie della sua esistenza.
«Vecchio?» – si stupì.
L’uomo gli fece un cenno col capo, anche se con il suo sguardo carico di pietà aveva già annunciato nel modo più chiaro quello che gli occhi del giovane stavano per scoprire.
Jun’ichiro si scrutò ancora una volta le mani, già presentendo quello che avrebbe visto.
Rughe, macchie, le dita storte. Erano di nuovo le mani del vecchio maestro.
«No!» – un urlo tagliò la notte. Jun’ichiro, il vecchio, si prostrò a terra.
«No! Perché? Io l’ho salvata stavolta, ridatemela! Io ho riparato al mio errore, adesso lasciatemi vivere la mia vita insieme a lei! Ve ne prego!» Era in ginocchio ai piedi dello straniero e il pianto e la bava lo mascheravano di dolore. La sua voce roca tremava come mai aveva fatto.
«Jun’ichiro, tu hai fatto bene questa volta. La tua seconda occasione non è stata un dono sprecato. Ma questo non vuol dire che tu abbia corretto il tuo passato. Gli errori non si cancellano.
Tu hai corretto te stesso, questo era il tuo scopo, la tua meta, il tuo dono, la tua opportunità. Hai agito nel modo giusto. E ti sei liberato da quel peso che ti impediva di andare avanti sul tuo cammino. Sul nostro cammino.»
Ma queste parole non saziavano il dolore di averla perduta ancora una volta. Allora il vecchio eremita urlò ancora e ancora quel nome: «Emi!» – nella notte nessuno rispondeva. Egli sapeva che correre alla capanna avrebbe significato trovarla vuota e cadente. Per questo pianse e non smise fino all’alba.

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18

Bruciava il sole negli occhi rossi dal pianto. Non una lacrima era rimasta a inumidirne l’iride. Tutto fuori. Ogni singola particella del suo dolore era fuoriuscita dai suoi occhi e poi s’era asciugata al suolo.
La terra del bosco aveva bevuto tutto.
Il pianto a un certo punto s’interruppe e, dopo molto tempo, Jun’ichiro alzò con molta fatica le sue stanche membra. Si avvicinò allo straniero e con sincero smarrimento gli disse: «E adesso cosa sarà?»
L’uomo senza nome gli poggiò una mano sulle curve spalle prima di rispondergli.
«Tu verrai con me, sei atteso!»
«Non chiederò in quale luogo né in quale tempo mi porterai. A questo punto voglio solo proseguire questo nostro viaggio, troppo abbiamo già sostato. Giusto?»
«Giusto» – rispose la sua guida e lo rianimò con un altro sorriso e con queste parole: «Riesci a scorgere da qui la riva del lago?»
Il vecchio alzò lo sguardo verso gli occhi del suo compagno e poi fece un giro su sé stesso per vedere qualcosa, ma niente.
«Se da qui non vedi, prova a guardare oltre questo tempietto!»
Jun’ichiro titubò per alcuni istanti facendo saltellare i suoi stanchissimi occhi tra il passaggio che costeggiava il tempio e il viso del senza nome. Poi s’incamminò quasi barcollante diretto a superare il tempio.
Appena fu di fronte allo spigolo destro della costruzione, s’arrestò e quindi fece un ultimo passo lentissimamente, poggiando la sua mano sinistra alle levigate travi del tempietto.
Quello che vide lo drizzò sulla schiena e gli riempì la mente di luce.
Il sole splendeva alto sopra ai monti che troneggiavano sullo sfondo. E i raggi della stella si specchiavano su di un lago cristallino, che al vecchio parve immenso e immensamente bello. La foresta lo incorniciava con un verde intenso e brillante. E il tutto era tanto perfetto che persino i sassi sulla riva splendevano lucidi alla luce del giorno.
Alle sue spalle il viandante gli gridò: «Adesso lo vedi?»
«Sì, vedo!» – con un urlo stentato rispose Jun’ichiro.
«E vedi qualcuno?»
In effetti c’era una figura sulla riva del lago.
Con una veste chiarissima stava china a riflettersi sull’acqua.
«Chi…?» – disse perduto il vecchio.
E la sua guida, confondendolo maggiormente, incominciò inaspettatamente a schernirlo: «Vai, sciocco saggio! Vuoi ancora parole?»
Lo sconosciuto rise di gusto ma anche Jun’ichiro nella sua confusione capì che non era un cattivo segno. Allora allungò qualche passo che poi divenne una corsa barcollante.
Fu allora che la chiara figura sulla riva del lago si volse verso di lui e l’illuminò con un’espressione di incontenibile gioia.
Era una donna, avanti con l’età, ma non ancora invecchiata. Solo alcune sottili rughe le disegnavano il sorriso, ma quegli occhi non erano cambiati. Era lei.
Jun’ichiro la riconobbe quando fu a pochi passi di distanza dalla riva. Il suo cuore stava per scoppiare ma non gli importava. Corse verso di lei e lei gli corse incontro a sua volta.
Un abbraccio.
Una voglia di giglio sul collo.
Il profumo di Emi. L’avrebbe riconosciuto anche dopo mille secoli!
«Ti ho atteso per così tanto tempo, amore mio!» – disse lei – «Adesso finalmente sei qui con me! Grazie.»
La voce di lei era ancora limpida come acqua, proprio come egli la ricordava.
Lo straniero non nascondeva la sua soddisfazione, la sua gioia. Sorrise al vecchio Jun’ichiro quando quello si voltò a cercarlo e a ringraziarlo con un gesto della mano.
Ma quando i due, camminando lungo la riva del lago s’avviarono sulla loro nuova strada, lo straniero, rimasto solo, si voltò verso la facciata del tempio.
Entrò e s’avvicinò alla sagoma umana che stava raccolta nella scarsa luce della stanza. Poggiava la schiena contro una parete, seduto a terra. Aveva il capo canuto chino sul petto e sempre sul petto stringeva ancora una mano senza più vita. L’altra mano giaceva sul pavimento col palmo rivolto verso l’alto.
Erano le spoglie del vecchio saggio.
Il viandante con pazienza e amore distese quel corpo su di una stuoia al centro del tempio. Con un rito antico lo benedisse e quindi, chinatosi per salutarlo, gli baciò la fronte.
«Arrivederci, maestro.»
E, silenzioso com’era giunto, s’allontanò, avvolto dal suo manto verde, verso il cuore di quella antichissima foresta.

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