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La palazzina Est

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INDICE

Capitolo 1Capitolo 2Capitolo 3Capitolo 4


1

Copro gli occhi con il braccio. Il pigiama di lana mi pizzica la faccia, ma mi protegge dai lampi rossi e blu.
Di notte la finestra della cameretta la lascio sempre aperta. La tapparella, non i vetri. Quelli li chiudo sempre oppure chissà cosa entra!
Da quel lato delle Palazzine c’è solo la campagna e la strada non ha manco i lampioni. Di notte c’è buio e basta.
Ma ora c’è una tempesta di luci rosse e blu.
Per il rumore non posso fare niente. Non ho abbastanza mani per tapparmi anche le orecchie. Chiederei aiuto ad Antonino, ma lui è ancora piccolo e ha mani piccole. Quindi sento tutto.
Sento le sirene, sento la mamma che apre e chiude velocissima la porta. «Restate qui e non uscite. Angelì, tieni tuo fratello qua dentro!»
Sento anche Antonino che mi sussurra mille domande sceme: «Chi c’è di là? Cosa sono queste luci colorate? Dov’è andata la mamma?»

La mamma urla, forse piange. Sento anche papà, parla a voce alta ma non urla. Le ha rotto di nuovo il braccio?
Sento un altro uomo, sembra la voce del nonno, ma non è il nonno. «Signora Ombres, non ci intralci o dovrò portare in caserma anche lei! E non mi sembra il caso.»
Papà alza ancora la voce: «Maria, stai calma, ti ho detto! Chiama i tuoi, non voglio che resti sola. Ai bambini non far capire niente. Poi ci parlo io. Ora finiscila di fare voci e piglia quella minchia di telefono!»
Tanti passi pesanti che scendono le scale. Ancora voci nella strada e poi macchine che si allontanano. Silenzio.
Abbasso il braccio e tutto è di nuovo nero.
«Se ne sono andati? Ma erano le giostre? Dov’è andato papà?» Antonino scende dal letto e infila le ciabatte.
«Non ti muovere, Nì! Aspettiamo qui, ha detto la mamma! Se ti avvicini alla porta ti scanno!» Ho gridato, ora viene sicuro la mamma a rimproverarci. Invece non viene nessuno.

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2

«Li avete preparati gli zainetti? Diamoci una mossa!» La mamma è già pronta per uscire, anche se non sono ancora le otto.
Protesto: «Ma ancora è presto, la scuola è chiusa a quest’ora.»
«Angelo!» Lancia le tazze nel lavandino e mi sa che si sono rotte. «Non è proprio giornata! Lavatevi i denti, prendete gli zaini e andiamo. Che se oggi le scale impazziscono non arrivo in tempo da papà e…» Piange di nuovo? È girata verso le tazze e non vedo la faccia.
Do un piccolo calcio alla sedia di mio fratello e con la testa gli faccio segno di seguirmi. Facciamo il dentifricio assieme. Poi gli carico lo zaino di Mighty Max sulle spalle, prendo il mio Invicta nero e blu – io sono interista – e torniamo in cucina.
«Me lo presti un giorno il tuo zaino?» Antonino piagnucola. Ogni giorno la stessa domanda.
«Muori.» Ogni giorno la stessa risposta.
La mamma afferra al volo la sua borsa, le chiavi e un sacchetto di plastica con della roba dentro. Mi sembra il pigiama di papà, ma ho paura a chiedere. Afferra tutto con una mano, mentre con l’altra si fa il segno della croce. Poi ci guarda e lo facciamo anche noi. Iniziamo a scendere.
Noi viviamo al secondo piano. Ma oggi scendendo finiamo al terzo piano. Mi giro un attimo a guardare mamma e lei mi fa: «Non ti fermare, continuiamo a scendere e vediamo quanto tempo dobbiamo perdere oggi.»
Le scale sono bianche ma piene di strisce nere di sporco, anche sui muri. Ormai le conosco quasi a memoria.
Scendiamo e, girato l’angolo, vedo che siamo di nuovo al secondo piano. Non mi fermo. Scendiamo ancora e siamo al primo piano e subito dopo nell’atrio.
«Grazie, Dio mio.» Bisbiglia la mamma mentre mi supera, apre il portone e ci spinge fuori.
Antonino si tappa subito il naso con le mani e fa il verso di chi sta per vomitare. L’odore caramelloso dei fiori della bella di notte oggi è troppo forte. Mi sa che non è più un profumo, mi sa che è una vera puzza adesso. Fa schifo anche a me, ma faccio finta di niente o al massimo provo a non respirare fino a dopo il cancello.
«Mamma, ma tu la senti questa puzza?» Le indico i grandi cespugli fioriti. Alcune trombette sono rosa e alcune sono bianche, poi ci sono quelle miste come il gelato all’amarena.
«Ma quale puzza? È il profumo dei fiori! A voi non piace, ma a me ricorda cose belle.» L’ho fatta sorridere. Come ho fatto?
Ci riprovo. «Ma perché si chiama bella di notte? È perché di giorno fa schifo?»
Eh sì, sta proprio ridendo. Missione compiuta.
«Si chiama così perché i suoi fiori si aprono di notte soltanto e poi il giorno restano chiusi e si riposano.»
«Ma allora perché queste hanno i fiori tutti aperti a quest’ora?»
E adesso perché è tornata triste?
Siccome rimane zitta, mi fermo a guardarla mentre siamo già davanti al cancello.
Ha la faccia di quando si accorge che è l’ora che papà stacca da lavorare e che sta per tornare a casa. Mi guarda seria seria e dice: «Angelo mio, qui è sempre notte.» Mentre con una mano apre il cancello davanti a noi, con l’altra mi fa una lunga carezza.

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3

Tengo la testa bassa e guardo il copridivano. È tutto colorato ma io vedo che nei buchini del tessuto ci sono ancora incastrati i peli bianchi e ondulati di Spank. Provo a tirarne via qualcuno, mentre il nonno dice alla mamma che è meglio se andiamo a stare da loro. Io un po’ ci spero e un po’ mi dispiace. Dai nonni è pieno di caramelle e cioccolatini, ma in quel quartiere ci vivono solo vecchi. Qui invece ci abitano un sacco di bambini: Tano, Giuseppe piccolo, Giuseppe grande, Lidia, Marco, Carmelo…
Mamma forse mi ha letto la mente perché dice: «Loro qui hanno qualcuno con cui giocare, hanno tanti amici. E poi Angelo ha l’esame di terza media quest’anno, deve concentrarsi su quello e non può farlo in mezzo a un trasloco.» Mi guarda un attimo e mi sento rimproverato. Ma non è vero, lo capisco. Mi viene da farle un sorriso, per dirle che ho capito, ma non lo faccio.
«Lo sai com’è sta casa. Non ci puoi rimanere da sola con i bambini. La dovevate lasciare anni fa. Gliel’ho detto mille volte a quella testa di capra di mio figlio Luciano. I soldi vanno e vengono. La cosa più importante è la serenità della tua famiglia. In queste maledette Caserme c’è tutto tranne la serenità!»
La mamma si arrabbia sempre quando qualcuno le chiama “Caserme”, ma adesso non dice niente. Mi giro a controllare Antonino, seduto accanto a me. È imbambolato a seguire il discorso. Ha gli occhi rossi e il naso che cola da quando stamattina il nonno ci ha detto che papà adesso è insieme a Spank.
Io so che Spank è finito sotto un camion l’anno scorso, praticamente tagliato a metà.
“Anche a papà l’ha schiacciato un camion?” volevo chiedergli, ma so che non è andata così. Ieri, tra una puntata e l’altra di Dragonball, in tv hanno detto che Luciano Ombres è morto in carcere e che c’entrano delle casse piene di armi e la mafia.
Papà non è con Spank. I due pezzi di Spank li hanno portati al cimitero dei cani, ma i pezzi di papà di sicuro li portano al cimitero vero, quello che di giorno si vede dalla finestra della nostra cameretta.
In mezzo alle vigne si vedono degli alberi secchi e lunghi come pennarelli e sotto gli alberi-pennarello ci sono tante piccole chiesette. Quello è il cimitero delle persone. Lì ci sarà papà.
Intanto il nonno si è arrabbiato perché mamma non lo sta a sentire. Si alza, dà un bacio in testa a me e a mio fratello e bisbiglia: «Io e la nonna la diciamo sempre una preghiera per voi due, state tranquilli.» E se ne va.

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4

«Vabbene, ma portati tuo fratello. E non andate in giardino che ieri ha piovuto e vi riempite di fango. Questi non sono vestiti per giocare…» La voce della mamma fa una frenata e quasi si spegne. Mi fa un’altra lunga carezza. L’abbraccio? No, mi vergogno. L’appartamento è pieno di gente. Ci sono i vicini di casa – solo i grandi, niente bambini – e un sacco di parenti. Sono scesi pure gli zii da Monza.
Io sono contento che non ci hanno mandato a scuola, ma mi sono stancato di star seduto a guardare gente che piange. Afferro Antonino e lo tiro fuori di casa. «Vieni, andiamo a cercare Tano!»
«Ma è mattina, sono tutti a scuola. Mica è domenica.»
So che ha ragione, ma lo stesso voglio andar via, così gli dico che forse non siamo gli unici in vacanza oggi.
Tano abita nella Palazzina Nord, quella di fronte alla nostra, al quarto piano.
«Passiamo dalla cantina», dico.
«No, no, no!» Antonino tira via la sua mano dalla mia.
«Sì, lo so. Ma da fuori non possiamo passare. C’è fango.» Lo guardo e con gli occhi gli chiedo di camminare.
«E se non funziona? E se c’è Spank?» Ha gli occhi spalancati e parla senza chiudere la bocca. Capisco che sta per mettersi a piangere.
«Ascoltami: Spank non ti può fare niente, non ha nemmeno la bocca! E poi siamo insieme, corriamo e arriviamo subito di là.» Allungo una mano e lui me l’afferra.
Scendiamo le scale e per fortuna oggi i piani sono tutti al loro posto.
Il sotterraneo lo odio anche io. I neon non funzionano mai ed è pieno di ragnatele e scarafaggi e mamma dice che ci sono pure i topi.
Con quel poco di luce che arriva da fuori si vedono un po’ le colonne mezze sgretolate e le porticine delle cantine. Sono tantissime e tutte uguali. Sembra un labirinto.
Quando devo passare davanti a una cantina aperta ho sempre paura che qualcosa all’improvviso mi afferra e mi risucchia dentro. Oggi sono chiuse.
Stringo di più la mano di Antonino e accelero il passo per arrivare dall’altra parte il prima possibile.
Mi sembra di sentire dietro di noi il cic ciac di zampe di cane sulle piastrelle. Inizio a correre. «Andiamo, dai!»
Raggiungiamo in un lampo la scala della Palazzina Nord e subito saliamo. Ma appena ci fermiamo per controllare capisco che siamo di nuovo nella nostra palazzina. Riconosco la spessa strisciata nera sul muro dell’atrio.
Lo capisce anche Antonino: «Lo sapevo!»
«Ok, allora passiamo dal giardino.»
Usciamo dal portone di vetro ruvido e raggiungiamo la passerella che attraversa il giardino. La puzza dei fiori oggi non è tanto forte.
Le palazzine sono tre e formano una ‘U’, tipo le calamite dei cartoni animati. Anche il giardino forma una ‘U’, ma più grande. Di solito.
La siepe che circonda il giardino non mi fa vedere la strada e nemmeno le altre case del quartiere. Se sei dentro al giardino è come se il mondo fuori non esiste. Mentre cammino guardo le palazzine per tenerle d’occhio e per distinguerle. Ma so che è impossibile.
Nel condominio è vietato decorare i balconi o le finestre con tende o fiori colorati. Tutto deve essere uguale, le tende devono essere tutte bianche e sono vietati piante e fiori.
Quelle poche volte che qualcuno non ha rispettato le regole… sono successe cose brutte.
Passiamo davanti la Palazzina Ovest, quella di mezzo, e la superiamo. O almeno mi sembra. Ma anche quella dopo mi pare la Palazzina Ovest. Cerco di riconoscere le crepe negli stucchi o le macchie di ruggine sulle ringhiere dei balconi più bassi. Qualcosa non quadra, non mi sembra proprio la palazzina di Tano.
«Proviamo ad andare avanti, se il giardino finisce dietro l’angolo allora questa è la palazzina giusta.»
Antonino ci pensa un attimo, poi fa un verso con la gola. È d’accordo. Ma girato l’angolo il giardino prosegue ancora e ci ritroviamo davanti a un’altra palazzina.
«Questa mi sembra quella giusta, ma non sono sicuro.» Guardo mio fratello che si gratta la testa. Allora mi avvicino al citofono e cerco di leggere i cognomi ma sono sempre tutti sbiaditi.
«Suona al quarto piano e vediamo chi risponde!»
Mi sembra una buona idea e schiaccio il pulsante dell’appartamento di sinistra all’ultimo piano. Solo che adesso ho paura. E se abbiamo disturbato qualcuno? E se qualcuno dormiva? E se la palazzina dormiva?
Nessuno chiede “Chi è?” ma il portone si apre lo stesso.
Sulla prima rampa di scale provo a riconoscere le linee di sporco, ma c’è troppo poca luce.
Antonino sale avanti e sembra stranamente tranquillo, conta i piani ad alta voce. «Secondo… terzo… e quarto!»
La porta a sinistra del pianerottolo è aperta, ma dentro l’appartamento non si vede nessuno.
Al centro del pianerottolo c’è la finestrella che dà sul cortile interno. Mi affaccio per capire in quale palazzina siamo finiti. Ma là fuori vedo palazzine su tutti i lati!
«Papà?» sento dire alle mie spalle. La voce di Antonino è un sussurro.
Mi giro di scatto e vedo nel corridoio buio dell’appartamento l’ombra di qualcuno. Gli occhi non si abituano subito, ma alla fine riconosco la faccia. È papà.
«Papà!»
Mio fratello inizia ad andare incontro a… quell’ombra. Ma lo afferro per un braccio e lo trattengo. Perché papà non dice niente? Perché non viene ad abbracciarci?
Penso al discorso del nonno, alla mamma che da settimane non la smette di piangere, penso al telegiornale, penso a Spank… non so a chi credere, cosa credere.
Nel frattempo Antonino sguscia via e corre incontro a papà, nel fondo dello scuro appartamento. Gli vado dietro ma mi guardo anche intorno per vedere se è davvero casa di Tano.
No, non è. I mobili sembrano quelli di casa nostra, ma è tutto così buio! Passo davanti alla cucina e sembra tutto arrugginito, ci sono sedie buttate a terra. Poi vedo sulla sinistra una cameretta con una branda sfondata e una cassettiera tutta storta, mancano dei cassetti. A destra c’è un bagno con le piastrelle coperte di grandi macchie nere. Qualcosa cola dal lavandino. C’è tantissima puzza.
Antonino ha raggiunto papà e gli abbraccia le gambe. Ma lui non risponde, non dice niente. Ci guarda e basta. Da vicino sembra molto triste, ma anche molto strano.
«Papà!» grida Antonino, affondandogli la faccia sulla coscia. Allora papà alza le braccia e appoggia le mani sulle sue spalle.
Antonino alza lo sguardo sorridente, ma è un attimo. Subito fa una smorfia. Vedo le dita di papà affondare nelle spalle di mio fratello, mentre la sua bocca si apre lentamente con un respiro grattato come di chi ha il mal di gola. Io sono paralizzato.
Ma poi sento l’urlo di dolore di Antonino e mi butto in avanti e lo acchiappo abbracciandolo all’altezza del petto. Provo a tirarlo via ma papà lo stringe più forte. Gli tiro un calcio. «Lascialo! Non ha fatto niente!»
Una sua mano lascia la spalla di Antonino e mi colpisce in faccia come una frustata. Brucia come tutte le altre volte, ma almeno non sono caduto. Stavolta non piango! Tiro via Antonino con tutta la forza che ho e finalmente papà lo molla.
Scappiamo giù per le scale, ma sento che mio fratello dopo un po’ rallenta fino a fermarsi.
«Torniamo da papà, non voglio andare via!» Batte i piedi sullo scalino e ha la faccia tutta rossa.
«Ma che dici? Quello ti ammazza!» Lo stringo per il polso e non lo mollo. Provo a tirarlo verso di me.
«Ahia! Mi fai male pure tu!» Antonino si butta a terra, seduto tutto storto sulla scala.
Penso a mamma che mi dice sempre: «Tuo fratello ha preso da me, ma tu sei una fotocopia di tuo padre.» Tremo tutto e lascio il braccio di Antonino. “Io non sono come papà, io sono buono!” Ripeto a me stesso un paio di volte. Poi mi inginocchio e dico: «Scusami, Nì. Non lo faccio più. Se arriviamo presto a casa, domani ci scambiamo gli zaini, va bene?» Mi abbasso per guardarlo negli occhi.
«E posso andare a scuola con quello dell’Inter?» Alza lentamente la testa e mi guarda con mezzo sorriso.
«Per tutta la settimana, se vuoi.» Sorrido anch’io, ma ascolto ogni rumore sospetto.
Senza farselo ripetere, Antonino salta in piedi e inizia a correre giù per le scale. Io lo seguo senza perdere tempo.
Scendiamo di due piani e ci ritroviamo ancora davanti la porta aperta dell’appartamento di papà. Ma lui dentro non c’è. «Corri, non fermarti fino a quando non siamo fuori!»
Così scendiamo di altri due piani ma, invece di raggiungere l’atrio del palazzo, ci ritroviamo nel sotterraneo. Antonino continua a correre come gli ho detto io, senza fermarsi nemmeno un attimo. “Bravo, Nì. Corri!”
Tutte le porticine sono spalancate. Mi blocco. Sento unghie di cane sulle piastrelle, il cic ciac viene da ogni direzione. Poi lo vedo. Due zampe e una coda, attaccati al sedere di Spank. Riconosco la sua pelliccia da pecora, ma dove una volta c’erano la testa e le altre zampe c’è solo una macchia scura e umida. Lo vedo tagliare la strada ad Antonino, che si ferma con una scivolata. Nello stesso istante da una delle porte aperte sul buio esce l’ombra di papà, che lo raccoglie da terra e in un soffio spariscono dentro un’altra porticina. La metà di Spank li segue e io corro dietro al rumore delle sue zampe di cane morto. Ma quando arrivo alla cantina, dentro ci sono solo bidoni di vino, scope e scatoloni ammuffiti.
“Se lo è portato in quella casa puzzolente”, penso e corro di nuovo indietro verso la strana palazzina. Risalgo le scale come un pazzo, ma al secondo piano vengo fermato dal nonno.
«La mamma vi aveva raccomandato di non sporcarvi. Dove corri così di fretta, eh? E Antonino dove l’hai lasciato?»
Salendo le scale non mi sono accorto di essere finito nella nostra palazzina. Ignoro il nonno e mi affaccio di corsa alla finestrella sul cortile. Vedo le due palazzine di sempre e a destra il cimitero coi suoi alberi-pennarello.

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